Michel Foucault: governamentalità e ragion di Stato

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di Michel Senellart (trad. di Giulio Gentile)

Ripubblichiamo un importante contributo di Michel Senellart sulla lettura foucaultiana della ragion di Stato – nel contesto della sua più complessiva analisi intorno alla governamentalità – che, nella sua traduzione italiana a cura di Giulio Gentile è apparsa nel numero 2 (1994) del Bollettino dell’Archivio della Ragion di Stato. Il testo è stato poi ripubblicato, in una nuova traduzione, in “Governare la vita: un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France, 1977-1979”, a cura di Sandro Chignola (Ombrecorte, 2006).

La ragione è forse totalitaria? È noto come tale problema venisse posto da Horkheimer e Adorno[1] all’indomani della seconda guerra mondiale. A dispetto della propria simpatia per la scuola di Francoforte [2], Foucault la giudicava priva di senso (“Faremo noi il processo alla ragione? (…) nulla sarebbe più sterile”[3]). Pertanto alcuni interpretano il suo pensiero nel quadro di una tale “dialettica dell’Illuminismo” al fine di mostrare che egli è partecipe di un rifiuto globale della modernità e, togliendo ogni fondamento razionale ai valori democratici, si riduce ad un puro soggettivismo[4]. A tale proposito fornirò un solo esempio, ricavato da Habermas, senza disconoscere per questo l’interesse filosofico per la lettura habermasiana di Foucault. Nel capitolo decimo del Discorso filosofico della modernità, “Aporie di una teoria del potere”, egli dedica una nota alle “sindromi che caratterizzano”, secondo lui, dopo il 1968 “l’atteggiamento rinnegatore di sinistra”, comune ai noveaux philosophes e ai neoconservatori americani della generazione precedente: “La figura del pensiero è sempre la stessa: al di sotto dell’universalismo dell’AufklŠrung , al di sotto dell’umanesimo degli ideali di emancipazione, ed ancora al di sotto dell’esigenza razionale di un pensiero sistematico, si afferma una volontà di potenza compressa che, nel momento in cui la teoria si appresta a farsi pratica, getta la maschera (…). Non solamente Foucault è apparso come un difensore di questi temi ben conosciuti dall’opposizione ai Lumi, ma egli li avrebbe di fatto accentuati in una critica della ragione e generalizzato in una teoria del potere”[5]. Certamente Habermas precisa che le “riflessioni centrali” di Foucault non si possono applicare attraverso questo solo contesto, ma procedono nella sua opera da una dinamica teorica anteriore alle esperienze del 1968[6]. Cionondimeno la sua teoria del potere non sarebbe che l’elaborazione geniale, votata comunque a contraddizioni insolubili, del vecchio amaro ritornello di critica ai maleficii della ragione.

Nel corso delle pagine seguenti cercherò di mostrare che il giudizio di Habermas è indifendibile. Mi sembra comunque necessario, per introdurre la questione della governamentalità (ed in particolare della ragion di Stato), richiamare immediatamente la posizione di Foucault nei confronti della critica della ragione[7]. In poche parole si può sostenere che lungi dal rigettare l’Aufklarung e dal rinchiudersi in una dialettica negativa, dominatrice e totalitaria, egli considera il problema dell’Aufklarung , così come formulato da Kant, come il problema stesso della filosofia dopo due secoli. Non si tratta più di pensare contro i Lumi, ma a partire dal progetto critico inaugurato da Kant. Riassumiamo brevemente gli aspetti principali di questa problematica:

1) A differenza di alcuni autori della Scuola di Francoforte, Foucault a) rifiuta di trattare il razionalismo come un tutto, b) ritiene dannosa la stessa parola razionalizzazione, c) considera che le forme di dominio concepite dall’Europa moderna affondino le proprio radici in processi più lontani rispetto ai Lumi[8]. Egli è d’accordo con Max Weber, il quale – riscontrando nell’ascesa calvinista una delle sorgenti del razionalismo occidentale – insisteva sulla necessità di distinguere forme differenti di razionalizzazione a seconda dei campi delle attività e dei fini perseguiti[9]. La razionalità , egli diceva, ingloba di fatto molteplici modi di razionalizzazione, in cui si situa il confine tra razionale e irrazionale[10]. Non di meno Max Weber conserva la categoria generale di razionalizzazione che riassumeva ai suoi occhi “i tratti comuni dei processi molteplici, economici, sociali, ideologici o artistici, la cui totalità costituisce la genesi della moderna civiltà occidentale”[11]. Foucault, al contrario, si rifiuta di ordinare i diversi tipi di razionalità, indissolubili da forme particolari di esperienza, su di un unico asse teleologico che conferirebbe loro unità di senso. Atteggiamento dettato senza dubbio dalla condanna di ogni etnocentrismo ma che procede ugualmente, come vedremo, dal suo nominalismo metodologico.

2. L’Aufklarung stessa non deve essere presa come un tutto, ma come “un avvenimento, o un insieme di avvenimenti” che comporta “alcuni elementi di trasformazione sociale, tipi di istituzioni politiche, forme di sapere, progetti di razionalizzazione, conoscenze, pratiche, mutamenti tecnologici, che è molto difficile riassumere in una parola”[12]. Ne viene la conseguenza che non bisogna essere pro o contro l’Aufklarung ; tuttavia, nella misura stessa in cui attualmente ancora dipendiamo dalle strutture che ha messo in campo, se ne possono utilizzare alcune componenti per tentare di liberarsene. Se esiste una dialettica dell’Aufklarung, non v’è il movimento per il quale essa possa trasformarsi ineluttabilmente nel suo contrario; esiste piuttosto la tensione che ci permette di rivolgerci contro quella, al fine di combatterne gli effetti negativi[13]. Ora uno degli elementi positivi dell’Aufklarung , secondo Foucault, risiede in un atteggiamento, “un ethos filosofico che si potrebbe definire critica permanente del nostro essere storico”, che trovò espressione nell’articolo di Kant, Was ist Aufklarung ?[14]. “Nel testo di Kant si vede apparire il problema del presente come avvenimento filosofico al quale appartiene il filosofo che ne parla”[15]. Attraverso le domande: cosa è l’attualità di cui faccio parte? quale è questo noi all’interno del quale io parlo? la filosofia per la prima volta interrogherebbe la sua stessa attualità. Questo sarebbe il punto di emergenza della modernità come problema[16]. Si vede dunque che questa nonè percepita sotto forma di rifiuto, ma di rapporto critico nei suoi stessi confronti in vista della trasformazione. Al progetto di un dominio generale dell’essente fa da contrappeso, nel discorso dei Lumi, la possibilità di un’ontologia storica dell’esistente, al disegno tecnologico l’attitudine critica. Tema essenziale in Foucault: il costituirsi di nuovi tipi di costrizioni genera, per reazione, nuove pratiche di libertà.

3. Riattivare l’attitudine critica preconizzata da Kant: ecco dunque ciò che permetterebbe di rompere con l’Aufklarung restandole comunque fedele. Contrariamente alla tesi di Habermas, per il quale la teoria del potere in Foucault è correlata alla sua condanna radicale dei Lumi, a partire dal problema dell’Aufklarung in quanto invito a pensare da se stessi – sapere aude ! – Foucault, negli anni 1977-1978, introdusse la nuova problematica della “governamentalità” (nesso chiaramente stabilito nella conferenza pronunciata nel maggio 1978 davanti alla Società francese di filosofia)[17]. Questa articolazione solleva tre problemi che non è possibile trattare se non in maniera schematica:

A. Quale relazione Foucault stabilisce tra l’attitudine critica di cui trova l’esempio nell’articolo di Kant e la filosofia critica di quest’ultimo? Pensare da se stessi è un ritornare a Kant? Assolutamente no. Si tratta piuttosto di ritornare ai problemi posti da Kant al fine di procedere oltre Kant, dal momento che egli non è andato sino in fondo alla sua stessa ingiunzione critica e, invece di opporre l’autonomia all’obbedienza ai sovrani, ha fondato tale obbedienza sull’autonomia stessa[18]. Tralascio qui le obiezioni che si potrebbero fare a quest’analisi e di cui un buon indice è offerto da Hannah Arendt, nelle suo Letture sulla filosofia politica di Kant [19]. Riprendere l’impresa critica suppone in ogni caso, per Foucault, il riconoscimento di una cesura tra l’analisi kantiana dell’Aufklarung e il suo progetto critico, e il passaggio da una critica in termini trascendentali (che cosa posso sapere?) a una critica in termini di pratica (come sono costituito in quanto soggetto di sapere?). “Bisogna (…) invertire il cammino filosofico di risalita verso il soggetto costituente a cui si domanda di rendere conto di ciò che può essere in tutto oggetto di conoscenza in generale; si tratta al contrario di ridiscendere verso lo studio delle pratiche concrete per mezzo delle quali il soggetto è costituito nell’immanenza di un dominio di conoscenze”[20].

B. Quale relazione, in seguito, Foucault stabilisce tra la critica così concepita e il suo proprio percorso teorico? Costituisce l’attitudine critica una nuova tappa in rapporto alla descrizione archeologica delle formazioni discorsive, alla genealogia dei singoli oggetti (follia, sessualità, prigione) che esse producono, all’analisi strategica delle relazioni instabili, mobili, che le modificano, dove bene rimangono iscritte queste tre dimensioni simultanee del lavoro effettuato da Foucault dopo la Storia della follia (l961), grazie a questi concetti oggetto di progressivo ripensamento, anzi di spostamento? È difficile rispondere a questa domanda; ogni sintesi di Foucault a partire da un nuovo concetto, nello stesso tempo in cui ne fa risultare la coerenza, comporta effetti di rottura, di reinquadramento, di reinterpretazione, che sono altrettanti segni di un pensiero in atto. Dal canto suo, Foucault iscrive l’attitudine critica nella continuità della sua opera precedente[21], ma nei suoi ultimi testi insiste più a lungo sui “modi di soggettivazione” piuttosto che sui “processi di oggettivazione” (benchè gli uni siano inseparabili dagli altri). In altri termini, la questione principale legata all’attitudine critica non è più tanto quella del potere, ma quella della libertà: “Caratterizzerò (…) l’ethos filosofico proprio dell’ontologia storica di noi stessi come una prova storico-pratica dei limiti che possiamo superare e dunque come lavoro di noi stessi su noi stessi in quanto esseri liberi”[22]. Questo ethos critico che dal 1978 si fa discendere da Kant, trasportando l’analitica della finitudine[23] sul terreno di una pratica sperimentale della libertà[24], non è dunque in principio niente altro che l’etica della preoccupazione di se stessi sviluppata da Foucault nel suo ultimo libro, in cui alcuni hanno creduto di vedere un disimpegno estetico, non riconoscendovi il rapporto essenziale che intrattiene con la sua concezione del potere. Come è possibile non essere governati sulla base di questa o di quest’altra modalità coercitiva? È l’esperienza collettiva o individuale della rivolta, della resistenza o della contro-condotta che costituisce per Foucault lo zoccolo storico dell’attitudine critica[25].

C. Ma se si delinea, nel cammino di Foucault, a dispetto dei suoi bruschi scarti, e attraverso una profonda trasformazione di stile, una indiscutibile coerenza, si può dire che essa rappresenti una totale continuità? Non lo credo. Piuttosto, l’errore sarebbe interpretare secondo i soli criteri del rigore sistematico un pensiero che pensa se stesso come un ethos, un attitudine, un esercizio storico-pratico. Non voglio certo dire con questo, evidentemente, che la sua verità si lascerebbe decifrare solo sul piano esistenziale[26], dissolvendosi poi nel contingente di un percorso soggettivo. Voglio semplicemente suggerire che l’apparire, l’evoluzione o la scomparsa di certi concetti in Foucault debbono comprendersi non come dei puri fenomeni teorici, prodotti dallo sviluppo di una ricerca in corso, ma come effetti della sua indicazione storico-pratica. Il concetto di potere ne offre un esempio abbastanza notevole. Andiamo a vedere in effetti come la problematica della governamentalità, formulata nel 1978, se pure si iscriva per molteplici aspetti nella linea dei lavori anteriori di Foucault (sul potere-sapere e sulla microfisica del potere), derivi egualmente da uno sforzo di oltrepassare la critica del potere in termini di contrapposizione e dunque di sfuggire ai modelli della guerra, ancora validi per l’estrema sinistra degli anni settanta. Successivamente, si potrebbe riconsiderare la lettura di Habermas, senza peraltro condividerla, chiedendosi anche se il ritorno di Foucault alla problematica dell’Aufklarung (che non era d’altra parte per nulla il problema così come l’intendeva Habermas)[27] passi o meno attraverso una modificazione sensibile della nozione di potere. Semplice approfondimento, secondo lo schema lineare del progresso della ricerca, oppure rimaneggiamento in virtù della condizione nuova di un “gioco” storico – pratico? Indice di un problema meglio impostato oppure di una nuova difficoltà da superare? Fare apparire il nesso tra una certa analisi del potere e le modalità storiche della sua concettualizzazione non permette più senza dubbio di descriverla, secondo la procedura ordinaria della storia delle idee, come un momento logico di un pensiero in via di totalizzazione. Nè la si può ridurre, d’altra parte, a una teoria di circostanza. Nella misura in cui Foucault, a partire dagli anni ’70, concepiva la teoria come una pratica impegnata nelle lotte concrete, gli si restituisce la sua dimensione di avvenimento[28]: discorso che sopravvive in un campo di forze determinato, e deriva dunque, a sua volta, da un’analisi strategica. Io credo, per parte mia, che bisogna tentare di comprendere la nuova problematica della governamentalità, esposta nel 1978, in termini di continuità metodologica, di spostamento filosofico e di rottura evenemenziale.

Dal potere-battaglia al potere-governo

Ricostruiamo sommariamente le principali tappe dell’analisi del potere sviluppata da Foucault tra il 1970 e il 1978. Foucault parte all’inizio da una doppia considerazione: 1) assenza di una definizione del potere (“noi ignoriamo ancora che cos’è il potere, … questa cosa enigmatica, a volte visibile e invisibile, presente e assente, investita in ogni parte”)[29]; 2) assenza di un modello teorico per pensare il potere. Ora Foucault, in una conversazione del 1977[30], riconosce la presenza del problema del potere nei suoi primi libri malgrado la totale assenza del concetto . Problema senza concetto, rivelatore dunque di un vuoto teorico. È allora l’approfondimento riflessivo del problema che ha permesso la formulazione del concetto? No, piuttosto il cambiamento delle contingenze politiche. È davvvero notevole che Foucault avvenimentalizzi (événementialise) il proprio discorso, riconducendolo al contesto storico: “…ha avuto certamente un’incapacità a formulare la questione del potere legata sicuramente alla situazione politica nella quale ci trovavamo”[31]. In effetti egli chiarisce: ” non si vede da quale lato – a destra o a sinistra – si sarebbe potuto porre questo problema del potere. Da destra, il problema veniva posto solo in termini di costituzione, di sovranità, ecc., dunque in termini giuridici; da parte marxista, in termini di apparato dello Stato”. Da un lato, dunque, il modello giuridico, dall’altro, il modello ideologico o istituzionale: l’uno e l’altro si organizzavano attorno all’istanza dominante dello Stato. Si tratta dell’identificazione, positiva o critica, della teoria politica con la teoria dello Stato; questo fatto rendeva impossibile la problematizzazione del potere nello spazio specifico della teoria. Fu questo il risultato, spiega Foucault, non di una decisione teorica, ma di una necessità pratica: “Si è potuto cominciare a fare questo lavoro solo dopo il 1968, vale a dire a partire dalle lotte quotidiane e condotte alla base, con coloro che si dibattevano nelle maglie più fini della rete del potere. In questa condizione, il concreto del potere è apparso e nello stesso tempo è emersa la indubbia fecondità di quest’analisi del potere finalizzata a spiegare cose che erano rimaste fino ad allora fuori del campo dell’indagine politica”[32]. Il concetto di potere, che si impianta dunque nella lotta, permette a Foucault di scoprire retrospettivamente nella sua opera la permanenza di un problema non formulato. La lotta è non solo ciò che richiede un’analisi concreta dei meccanismi del potere, ma lo spazio dove si manifesta nella sua verità effettiva. Concetto di lotta (è sua funzione strategica: Kampfbegriff, dicono i tedeschi), ma egualmente concetto della lotta in quanto forma generale delle relazioni di potere (è questa allora la sua definizione strategica). L’analisi teorica del potere in termini di strategia è omogenea al funzionamento pratico del concetto. Il concetto di potere non forma più dunque il nocciolo di una teoria in via di organizzazione, ma lo strumento di un lavoro di analisi radicato nelle lotte concrete. Vorrei insistere su questo punto: non è certo il potere in quanto tale che interessa Foucault, ma la resistenza al potere sotto le sue forme molteplici[33]. È perciò abbastanza vano parlare del potere in Foucault senza chiedersi nello stesso tempo in quale contesto strategico, o in quale prospettiva critica, egli utilizzi questo concetto. Ciò che Foucault propone non è una certa concezione del potere posta a sostituzione della teoria giuridica o istituzionale, ma una serie di ipotesi che permettono al di fuori di ogni quadro interpretativo prestabilito di analizzare le relazioni di potere costitutive di un campo pratico dato. Queste ipotesi si trovano molte volte enunciate negli scritti, nei corsi o nelle conversazioni di Foucault a partire dal 1973. Ecco i principali riferimenti in ordine cronologico;

1973 Le pouvoir et la norme (corso al Collegio di Francia del 28 marzo 1973)[34];

1975 Surveiller et Punir , pp. 31-32;

1976 La Volonté de savoir , pp. l23-127;

1977 Pouvoirs et strategies , conversazione pubblicata in “Les Révoltes logiques”, ndeg.4, pp. 94-95;

1984 Deux essais sur le sujet et le pouvoir , in H. Dreyfus et P. Rabinow, Michel Foucault, un parcours philosophique [35].

Se si confrontano questi testi differenti, si constata che i primi due sistematizzano il modello della battaglia; il terzo mette in questione, senza scartarla, l’analogia con la guerra, mentre l’ultimo le sostituisce lo schema del “governamento”. Alla duplice ipotesi contrattualista o repressiva, corrispondente alla rappresentazione giuridico-istituzionale del potere, Foucault avrebbe dunque opposto all’inizio un’ipotesi guerriera, in seguito – dopo il ripensamento critico – un’ipotesi governamentale. Senza dubbio questo movimento critico si esprime non tanto attraverso un superamento globale, quanto piuttosto attraverso una serie di spostamenti che bisognerà descrivere con precisione. Mi sembra inoltre che non si sia ancora prestata sufficientemente attenzione alle questioni poste da Foucault, tra il 1976 e il 1978, in merito alla sua stessa griglia d’analisi; esse permettono di comprendere meglio non solo la nuova problematica della governamentalità, ma anche la sua positiva propensione – in parte anche fuorviante – nei confronti di uno storicismo rivendicato come mordace nel 1976, e vigorosamente rinnegato qualche anno più tardi. Analizzando più da vicino questo tema della governamentelità, vedremo chiaramente delinearsi, tra il 1978 e il 1979, l’originalità dell’interpretazione proposta da Foucault sul problema della ragion di Stato.

A. Il potere-battaglia.

Citerò solamente due brani:

“…il potere è sempre una certa forma di contrapposizione istantanea insistentemente e continuamente rinnovantesi in un certo numero di individui. Il potere non si possiede perchè lo si gioca, e lo si rischia. Il potere si vince come una battaglia e si perde allo stesso modoÈ un rapporto bellico e non un rapporto di appropriazione che sta nel cuore del potere”[36].

“…lo studio della microfisica del potere suppone che il potere che si esercita non sia certo concepito come una proprietà, ma come una strategia; … come modello gli si conferisce la battaglia perpetua piuttosto che il contratto che opera una cessione, o la conquista che si impossessa di un dominio”[37].

Come si vede, l’immagine della battaglia adempie una funzione fondativa (è il rapporto di contrapposizione a quanto è nel cuore del potere) e critica (il potere non si possiede, è continuamente in gioco). In altri termini permette di sostanziare il potere – che non è certo cosa di cui ci si possa appropriare – e di dissolverlo nella molteplicità conflittuale e mobile delle relazioni di potere. La battaglia serve a pensare il potere come pura relazione di forze. È a questo titolo che lo schema della conquista è qui ricusato: giacchè essa legittima una concezione patrimoniale del potere e non delinea certo l’istaurazione violenta di un rapporto di dominio. Nel corso del 1976, in Bisogna difendere la società , la conquista servirà al contrario a alimentare il discorso storico-critico della battaglia indeterminata.

B. Il potere si può analizzare secondo la forma generale della guerra?

Rovesciando la celebre formula di Clausewitz, Foucault domanda allora: la politica è forse la guerra continuata con altri mezzi? Questione più volte rilanciata negli anni 1976-1977[38], e a cui l’autore dedica un corso intero. Ancora, fornirò solo tre esempi:

nella Volontà di sapere , Foucault prende una certa distanza in rapporto a quello che chiamerò, per comodità, lo schema polemocritico, e presenta la politica e la guerra come due strategie differenti, “ma pronte a oscillare l’una nell’altra”, per integrare la moltitudine dei rapporti di forza[39];

il corso del 1976 esplicita la posta teorica, metodologica e storica della questione[40]. Foucault, tuttavia, se la pone in termini di fondamento, spostandola immediatamente sul terreno del discorso. Non si tratta di sapere se la guerra sia o non sia “uno stato di cose originario e fondamentale” in rapporto al fenomeno del dominio, ma piuttosto come abbia funzionato la guerra, nel discorso storico, in quanto indice dei rapporti di potere. Volendo esprimerci in modo diverso, Foucault storicizza il suo stesso discorso strategico. In quale misura, nel decifrare la pace, l’ordine, la verità attraverso la griglia generale della guerra, Foucault appartiene a un discorso storicamente costituito e resta prigioniero dei suoi limiti? Bisognerebbe poter fare un’attenta lettura di questo appassionante corso[41]. Senza entrare nel dettaglio dell’analisi, farò semplicemente quattro osservazioni in relazione al tema di questo articolo:

a. questo corso costituisce senza dubbio la realizzazione differita, trasformata, del progetto di un’archeologia del discorso storico al quale Foucault faceva allusione nel 1968[42], e il cui titolo sarebbe dovuto essere: Il passato e il presente. Un’altra archeologia delle scienze umane . In effetti, esso si presenta, più adeguatamente, come un’archeologia dello storicismo .

b. questo storicismo, definito come “l’appartenenza della guerra alla storia”[43], non è certo criticato da Foucault. Al contrario, si accinge a farne l’elogio, viene opposto al “discorso filosofico-giuridico che si riferisce al problema della sovranità e della legge”[44] e lo definisce come lavoro da proseguire: “Il primo compito che ci tocca è… sforzarci d’essere storicisti”[45].

c. questo elogio del discorso storico-politico, che si sottrae ad ogni posizione di universalità, descrive la permanenza della guerra nella società e utilizza la verità come arma per una vittoria partigiana, si inscrive nel prosieguo di un nietzschianesimo radicale affermato da Foucault, qualche anno più tardi, in Nietzsche,la généalogie,l’histoire [46]. Politicizzazione dunque della wirkliche Historie nietzschiana[47]: a questo uso parodistico e distruttore della verità[48], si aggiunge un uso sovversivo e distruttivo d’autorità.

d. questa stessa politicizzazione non si può comprendere al di fuori di un contesto ideologico. Sceglierò come indicazione solamente il numero speciale di Tempi moderni (n. 310 bis ,1972), apparso con l’eloquente titolo Nuovo Fascismo, Nuova Democrazia, al quale partecipò Foucault[49]. Questo numero contiene un lunghissimo testo di A. Glucksmann[50], il quale volendo dimostrare la fascistizzazione dello Stato capitalistico contemporaneo, ricorda che la guerra è la continuazione della politica e che il fascismo è la guerra[51]. A questo discorso di guerra fa eco Foucault, allorquando dopo aver dichiarato che la borghesia nel secolo XIX ha avuto i tre mezzi di esercito, colonizzazione e prigione per separare il proletariato e la plebe non proletarizzata, salvaguardandosi così dal rischio rivoluzionario, afferma: “… le tecniche (combattimento della sovversione interna) utilizzate fino al 1940 poggiavano soprattutto sulla politica imperialista (esercito/colonia); quelle utilizzate successivamente si avvicinano maggiormente al modello fascista (polizia, divisione interna, reclusione)”[52]. Con questo testo bisognerebbe confrontare la discussione avuta con Chomsky nel 1974[53]; a lui Foucault dichiara che bisogna attaccare il potere, la polizia, la giustizia in termini di guerra e non di una giustizia superiore e ideale. Se cito ora queste affrermazioni, che sembrano stranamente irreali, non é certo per concedermi l’opportunità di una facile ironia, ma per sottolineare il posto che il discorso di guerra occupava nell’argomentazione politica di Foucault. Cercherò di seguire, in effetti, il passaggio da questo discorso guerriero alla problematica governamentale, sbrogliando alcuni fili che con il loro groviglio formano il nodo complesso dell’analisi foucoltiana del potere.

Esempio ultimo della riflessione critica intrapresa da Foucault nel1976-1977 sul potere e la guerra. Si trova nella conversazione che precede la riedizione del Panopticon di Bentham[54]. Ponendo nuovamente il problema : “il rapporto di forza nell’ordine della politica è una relazione di guerra?”, Foucault risponde che non si sente pronto, al momento di rispondere in modo definitivo con un sì o con un no “…se si vuole prendere sul serio l’affermazione che la lotta è al centro dei rapporti di potere, bisogna rendersi conto che la brava e vecchia logica della contraddizione non è sufficiente, anzi è lontana, dal districare i processi reali”[55].

C. Il potere-governamento

A partire dal 1978, Foucault si impegna in un vasto programma di ricerca sulla formazione della razionalità politica occidentale, che lo spinge a risalire alle sorgenti greche e bibliche; in cui lo schema della guerra viene cancellato. Ormai è nei termini di governamento che sono analizzate le relazioni di potere.

Si possono proporre due letture di questo rinnovamento teorico: l’una che pone l’accento sulla continuità con i lavori precedenti, l’altra che senza negare una certa continuità distingue – al di là della semplice rivoluzione concettuale – inflessioni, spostamenti e linee di rottura. La prima interpretazione è quella sostenuta da Pasquale Pasquino[56], Colin Gordon[57]e Dominique Séglard[58]; la seconda corrisponde ai problemi che mi sforzo di formulare in questo momento.

Secondo P. Pasquino, la ricerca foucaultiana dopo di Storia della follia avrebbe avuto il seguente percorso: dalle divisioni costitutive nella società moderna del soggetto ragionevole e normale alla problematica delle discipline (1961-1975); dalla successiva messa in questione delle concezioni repressive del potere all’analisi del governo come forma specifica della politica moderna (1976-1984)[59]. In questo modo, lo schema del governamento sarebbe derivato dalla griglia euristica delle discipline. Dominique Séglard propone per gli anni 1975-1978 una sequenza leggermente differente: discipline/bio-potere/governamento: “Dopo Sorvegliare e Punire (1975), Foucault sviluppa la sua analisi nella Volontà di sapere (1976), mostrando che il tema della disciplina dei corpi non è sufficiente a pensare la modernità. A questo tema si deve aggiungere quello della regolamentazione delle popolazioni … È lo sviluppo di questo tema che fa emergere le nozioni di governamento e governamentalità “[60]. Anche Colin Gordon spiega che il passaggio dalla microfisica dei meccanismi disciplinari alla microfisica delle tecniche governamentali si effettua in Foucault grazie al concetto di bio-potere introdotto nell’ultimo capitolo della Volontà di sapere [61] – concetto, ricordiamolo, che designava “questa grande tecnologia a doppia faccia anatomica e biologica, individualizzante e specificante”[62] messa in campo nel corso dell’età classica, attraverso forme ancora distinte ma non antitetiche di investimento della vita, relative all’assoggettamento dei corpi individuali e alla regolamentazione della popolazione [63]. Sorvegliare e Punire , aveva messo in luce, sulle orme di G. Canguilhem[64], l’apparizione del potere della norma nella società moderna: normalizzazione prodotta dalla meccanica disciplinare[65]. Nel 1976 la norma non è più riferita al solo funzionamento delle discipline, che si esercitano su entità singolari, ma al raccordarsi di queste con le grandi procedure, prese a carico dallo Stato, di regolamentazione biologica del corpo sociale[66]. Il governamento sarebbe la figura generale di questo dispositivo normalizzatore che, sostituendosi al dominio della forza e della legge, darebbe il suo aspetto specifico all’epoca moderna. La problematica governamentale verrebbe così a fornire, a partire da un punto di vista più inglobante, l’analisi della società secondo la griglia delle discipline. Essa permetterebbe a Foucault di oltrepassare il modello carcerario , in cui resta inscritta la critica del potere[67], che si concentrava in un discorso di guerra volto a definire altre modalità di lotta. Alla governamentalità , individualizzante e totalizzante, dello Stato moderno risponderebbero non più lotte locali in una prospettiva rivoluzionaria globale[68], ma pratiche singole, molteplici e trasgressive di soggettivizzazione. La problematica del governo dei viventi istituirebbe l’esperienza di sè come principale forma attuale di contro-potere[69]. Essa formerebbe così il legame con la politica foucoltiana degli anni ’70 e la sua etica degli anni ’80. Spostamento strategico,dunque, che traduce un progresso teorico all’interno di una rigorosa continuità metodologica.

Questa presentazione riassume bene il cammino di Foucault e ne fa scaturire la coerenza. Essa però comporta un pericolo. Allacciandosi innanzitutto ai suoi risultati , non rischia forse di trasformare gli assi di una inquieta genealogia in segmenti di un sapere positivo? Orbene la critica storica, Foucault lo ha dimostrato chiaramente, non è la storia. Essa mira a trattare un problema non a studiare un periodo[70]. Mi sembra dunque necessario non descriverne solamente i risultati, ma di confrontarli con la sua condizione problematica di enunciazione. In altri termini, bisogna esaminare la maniera in cui essa riflette se stessa sotto forma di una concettualizzazione sperimentale e legittima i concetti che mette in opera. Al posto di un continuo concatenarsi si vedono allora sorgere discontinuità che colpiscono, dubbi, rotture di piano: in una parola, tracce di un vero lavoro.

Il concetto di governamento attorno al quale essa si organizza, non delinea semplicemente una formazione storica particolare, ma funziona – almeno all’interno della cultura occidentale – come il paradigma stesso delle relazioni di potere. Per Foucault il governamento è senza dubbio, nella sua definizione restrittiva, una certa forma di esercizio del potere correlativo alla razionalità politica moderna, ma è innanzitutto nel senso più largo “il modo di relazione proprio del potere”[71]. Ciò implica dunque una rottura con il modello della guerra opposto fin dal 1976 alla rappresentazione giuridica del potere: ” Governare (…) è strutturare l’eventuale campo d’azione degli altri. Il modo di relazione proprio del potere non sarebbe dunque da ricercare sul versante della violenza e della lotta, nè del contratto e del legame volontario(…), ma sul versante di questo modo d’azione singolare –nè guerriero nè giuridico – che è il governamento”[72]. Se la problematica governamentale si iscrive, grazie al concetto di bio-potere, nella continuità della microfisica delle discipline, essa nondimeno si allontana dalla griglia polemocritica che strutturava quest’ultima. Mi sembra che l’analisi, per certi versi assai stupefacente, che Foucault fa della ragion di Stato non è comprensibile se non secondo questo sforzo rivolto a sostituire il modello di governamento al modello guerriero. Va da sè che non tenterò qui di spiegare perchè Foucault a partire dal 1978 cambi modello d’analisi, anche se sopra ho indicato a quali condizioni questo problema poteva eventualmente essere posto (in termini di evento e non di evoluzione). Non voglio certo suggerire nemmeno che Foucault sarebbe passato (a seguito di quali delusioni?) da una concezione bellicosa a una concezione tranquillizzante del potere – altrimenti detto, scegliendo di sfuggire a un atteggiamento di rigetto, e di “oltrepassare la linea”, si sarebbe in qualche modo accomodato al potere. “Piuttosto che di un antagonismo essenziale – egli dice – sarebbe meglio parlare di un agonismo , di un rapporto che è allo stesso tempo di incitamento e di lotta”[73]. Il governamento non suggella certamente l’avvenimento della pace nel discorso storico-critico. Esso segna al contrario il ritorno alla pura molteplicità della battaglia, al di fuori di ogni teleologia rivoluzionaria. La guerra, insomma, induce a pensare la lotta secondo la logica totalizzante della contraddizione[74]. Nel suo corso del 1976, Foucault rimproverava alla dialettica di aver colonizzato il discorso di guerra fondamentale. È questo discorso stesso che egli accusa immediatamente di riprodurre, nell’opporre una struttura binaria di contrapposizione alla piramide gerarchica, “le costrizioni sterilizzanti della dialettica”[75].

Passiamo ora vedere come Foucault analizza il discorso classico della ragion di Stato sull’orizzonte non più dello Stato-potenza ( Machtstaat ), di cui Treitschke disse, nel secolo XIX, che traeva le sue energie dalla guerra, ma dal liberalismo economico considerato come tecnologia del governo minimo. Quale logica collega la ragion di Stato all’arte liberale di governare? È in questa messa in prospettiva che si rivela più chiaramente lo sforzo operato da Foucault per sganciarsi da un certo tipo di critica storica, come mostra il confronto su alcuni punti essenziali con la tesi sviluppata da Meinecke nel 1924 nel suo grande libro L’Idea della ragione di Stato nella storia dei tempi moderni [76]. Essendo i corsi di Foucault sulla ragion di Stato in gran parte inediti, mi sembra necessario descriverne dapprima sommariamente l’architettura generale e indicare i riferimenti nei testi disponibili.

Governamentalità e ragion di Stato

Si possono distinguere tre fasi nella elaborazione della problematica della governamentalità : quella dell’invenzionne del concetto, quello della sua applicazione sperimentale, quello della sua totalizzazione retrospettiva.

Primo momento

Nel corso del 1978, Sicurezza, territorio, popolazione (STP), Foucault introduce per la prima volta questa nozione del tutto oscura . L’obiettivo mirato è quello di affrontare il problema dello Stato e della popolazione, o piuttosto la costituzione della popolazione non come insieme di soggetti di diritto, ma come oggetto di governamento: cosa che implica per sua natura una nuova economia del potere (STP, p. 3). È dunque proprio il problema del bio-potere che produce il legame tra l’analisi locale delle discipline e l’analisi globale delle pratiche governamentali. Impegno metodologico: si può “ricollocare lo Stato moderno in una tecnologia generale del potere (…) che sarebbe per lo Stato ciò che le tecniche di segregazione sono state per la psichiatria, (quelle della ) disciplina ( …) o sistema penale, ecc.”? (STP, p. 4 )[77]. La messa in luce di tecnologie aveva richiesto di delimitare l’istituzione-Stato. In quale misura si può allora pensare lo Stato a partire dalle tecnologie? Il concetto di governamentalità è dunque lo strumento d’analisi di un nuovo campo di oggetti analizzati secondo le regole di metodo adoperate nelle inchieste genealogiche precedenti.

Questa governamentalità – termine che dalla quarta lezione sostituisce il titolo iniziale del corso – delinea per Foucault tre serie di fenomeni:

1. in Occidente, lo sviluppo del governamento come tipo di potere distinto dalla sovranità e dalla disciplina è derivato dalla concezione pastorale del cristianesimo;

2. l’insieme delle modalità attraverso cui si esercita questa forma specifica di potere “che ha per bersaglio la popolazione, per forma principale di sapere l’economia politica, per strumento essenziale i dispositivi di sicurezza”;

3. il processo per il quale “lo Stato di giustizia del Medioevo, divenuto nei secoli XVI e XVII Stato amministrativo, si è trovato a poco a poco governamentalizzato ” (STP, p. 4 )[78], detto altrimenti, il processo per cui lo Stato ha integrato la vecchia tecnica del potere pastorale forgiata dal cristianesimo[79].

Il problema della ragion di Stato si pone al punto di incrocio tra l’asse pastorale e l’asse economico-politico, a volte come anello intermedio ed a volte come ostacolo.

Secondo momento

Il concetto di governamentalità offre allora l’occasione, nel corso del 1978, perlo svolgimento di alcune analisi sul potere pastorale (lezioni 4, 5 e 6), di cui si trova una sintesi nella conferenza Omnes et singulatim , sulla ragion di Stato (lezioni 8, 9 e l0), sulla polizia (lezioni 11 e 12), e nel corso del 1979 Nascita della biopolitica (NBP), sull’arte liberale di governare, sul mercato, sul calcolo di utilità (due esempi, tedesco e americano), sul liberalismo contemporaneo, infine sui concetti di homo oeconomicus e di società civile[80]. Il corso del 1980, Del governo dei viventi, torna sulla questione del pastorato, attraverso l’esame dell’analisi di coscienza e della confessione, già abbozzato nella Volontà di sapere [81], ma limitatamente agli scritti cristiani dei primi secoli[82]. Così si delinea progressivamente, con il concetto di governamentalità, la trama della problematica etica esposta da Foucault nei suoi due ultimi libri.

Terzo momento

Il corso del 1981, Soggettività e verità , collega esplicitamente il concetto di preoccupazione di sè alla questione del governo (come governare se stessi?) e la situa all’incrocio di due temi storici, precedentemente trattati da Foucault, della costituzione del soggetto e della governamentalità [83]. Introdotto nel 1978, il concetto assorbe dunque retrospettivamente i lavori effettuati dopo il 1973 (corso sulla società punitiva , Sorvegliare e Punire del 1975), anzi dopo la Storia della follia, e li raggruppa nella continuità di una stessa ricerca. Non credo che egli voglia con questo significare lo svolgimento progressivo di una intuizione assunta dapprima nella sua essenzialità, che poi si esteriorizza in analisi particolari. La governamentalità non è più il fine dell’opera foucoltiana, il punto in cui convergono – come verso il loro naturale approdo – i lavori anteriori, ma un punto di vista storico-pratico (quale forma prende oggi la volontà di non essere governati?), che mette in prospettiva il cammino percorso e permette di rivalutarne il significato. Foucault resta nietzschiano nella sua euristica (analizzare le identità stabilite a partire dai complessi di forza) come pure nella sua prospettiva ermeneutica (dissolvere l’unità di senso nella rete delle prospettive).

Cinque lezioni sono dunque in particolare dedicate, nel corso del 1978, alla ragion di Stato: le lezioni 4, 8, 9 e 10 e ll. Nella prima[84], Foucault definisce la nuova arte di governare che si organizza nei secoli XVI e XVII attorno alla ragion di Stato in quanto conoscenza razionale della realtà specifica dello Stato. La ragion di Stato viene collocata tra la concezione medievale dell’arte di regnare – incentrata sulla persona del principe – e la scienza liberale del governo, che poggia sulla coppia popolazione-ricchezza: in breve, tra la problematica della sovranità e la problematica del mercato; la ragion di Stato segna una rottura con la dottrina medievale del re immagine di Dio, ma – in quanto racchiusa dentro l’antica forma della sovranità – costituisce un ostacolo allo sviluppo di una techné governamentale autonoma. Nella lezione 8, Foucault – confrontando la nuova razionalità statuale dei secoli XVI e XVII al modello del governo monarchico esposta da San Tommaso – ricollega quella alla rivoluzione astronomica e scientifica (Dio non governa più il mondo, ma lo regge sovranamente per mezzo di leggi generali e intellegibili: da allora in poi non c’è più modello divino di governo), poi studia la definizione di ragion di Stato nei diversi teorici (Botero, Chemnitz). La lezione 9 mostra come si pone – nel passaggio dal pastorato alla ragion di Stato – il problema della salvezza (in termini di necessità, e non più di moralità), dell’obbedienza (in termini di gestione dei disordini, e non più di esempio o di legge), e della verità (in termini di statistica, e non più di saggezza o prudenza). Le lezioni 10 e 11, infine, descrivono la dinamica interna e esterna delle forze a partire dalle quali si organizza questa nuova razionalità governamentale, attraverso il dispositivo diplomatico-militare messo in campo dopo il trattato di Westphalie (1648) e il sistema della polizia (“insieme di mezzi per cui si può far crescere la forza dello Stato tutto ed insieme conservare il suo buon ordine”)[85]. Il mio obiettivo non è di ricostruire le grandi linee dell’analisi che Foucault fa della ragion di Stato[86]. Vorrei semplicemente rilevare alcuni segni di rottura critica indotti, nella sua lettura di Meinecke, dal passaggio dal modello guerriero al modello governamentale dell’analisi del potere. Per farlo, confronterò inizialmente queste diverse posizioni su tre punti precisi:la questione dello storicismo, il ruolo di Machiavelli, l’importanza del pensiero tedesco del XVIII secolo. Questo confronto – che non pretende di chiudere il pensiero di Foucault su un terreno che non era suo – è autorizzato dall’omaggio che egli rende allo storico tedesco nella sua conferenza Omnes et singulatim [87]. Ora, guardando più da vicino, Foucault fa molto meno riferimento a Meinecke di quanto invece ne prenda le distanze dalla sua interpretazione della ragion di Stato. Vedremo poi quali nuove prospettive la problematica govrernativa apre alla ricerca, tali da consentirgli di sfuggire all’antinomia classica tra il punto di vista giuridico, in termini di diritto naturale o costituzionale, e quello realpolitico , in termini di interesse e di potenza.

A. La questione dello storicismo .

Foucault, va ricordato, dichiarò nel 1976 che il lavoro critico passava per uno storicismo radicale. Ci si poteva dunque attendere che, volgendosi all’analisi dello Stato e ponendo la ragion di Stato non come una nozione limite, ma come la matrice stessa della razionalità politica moderna, egli condividesse il punto di vista di Meinecke. Questi,in effetti, allorchè concepì l’idea del suo libro L’Idea della ragion di Stato , alla vigilia della prima guerra mondiale, considerava la dottrina dell’interesse dello Stato, derivata dalla ragione di stato machiavelliana, come la sorgente veritiera del senso storico (Historismus ), che egli opponeva all’astratto universalismo del diritto naturale. L’Idea della ragion di Stato , nel suo primo progetto, non era dunque altro che una storia dello storicismo, che legava strettamente lo sviluppo della scienza dello Stato (Staatskunst ) allo sviluppo della politica di potenza[88]. Le ragioni per cui questo progetto, a seguito della “catastrofe tedesca” dovette essere rivisto e per le quali Meinecke scrisse un altro libro, Die Entstehung des Historismus nel 1936 per criticare le sue ipotesi iniziali, sono qui secondarie. Meinecke offriva un’analisi magistrale, esterna alle categorie giuridiche tradizionali, della formazione del razionalismo statuale. Ora Foucault, lungi dal fare propria la via storicistica così delineata, precisa al contrario che ciò che egli tenta di mettere in campo, “esattamente l’inverso dello storicismo” (NBP,1). Questa affermazione si può intendere su più livelli.

All’inzio, Foucault rifiuta il principio della “riduzione storicistica”. Questo consiste “nel partire dagli universali così come sono dati e nel vedere come la storia li ( …) modifichi”. Muovendo dall’universale per passarlo, in qualche modo, al setaccio della storia, lo storicismo si inscrive ancora in una tradizione platonizzante. Meinecke riconosceva, in effetti, che lo storicismo era nato dallo “spirito costantemente attivo del platonismo”[89]Il cammino di Foucault è invece inverso: suppone che gli universali (follia, sessualità, Stato) non esistano – cosa che non vuol dire siano nulla – al fine di sperimentare una storia delle pratiche e degli avvenimenti costitutivi di ciò che esse designano. Alla riduzione storicistica, che particolarizza l’universale, Foucault oppone un nominalismo metodologico che avvenimentalizza gli universali inscrivendoli negli esempi pratici[90]. È chiaro, ciononostante, che questa inversione procede essa stessa da un’attitudine storicistica. Foucault ripete il gesto di Nietzsche, il quale – dopo la seconda Inattuale – opponeva la storia effettiva al punto di vista sovrastorico degli storici[91]. L’inverso dello storicismo non è la sua negazione, ma il suo rovesciamento sperimentale, attraverso l’analisi delle pratiche concrete.

Da questo rovesciamento derivano un certo numero di altre inversioni. Ne menzionerò solo due. Dapprima quella del rapporto tra il potere e la vita. Mentre nella prospettiva organicistica di Meinecke, la vita nel suo dinamismo creativo costituiva la fonte della crescita degli Stati, dal momento che l’aspirazione alla potenza altro non era che l’espressione di questa energia vitale: nella prospettiva tecnologica di Foucault, la vita diviene il bersaglio del potere, lo strumento del suo funzionamento ottimale. Non è più la vita che dona la nascita allo Stato, ma lo Stato che costituisce la vita in oggetto di sapere e di potere. Il rovesciamento dello storicismo implica dunque una critica del suo biologismo latente. Inversione dei termini parimenti nell’analisi del processo di individualizzazione che caratterizza la storia delle società occidentali. Individualizzazione dello Stato, secondo Meinecke, che prende coscienza a partire da Machiavelli delle esigenze particolari della sua conservazione come essere organico[92]. Individualizzazione soggettiva, secondo Foucault, che risulta non semplicemente dall’azione dello Stato, ma da un regime governamentale di cui è esso stesso uno degli effetti. Individualizzazione del potere, secondo Meinecke, potere individualizzante, secondo Foucault. Il rovesciamente dello storicismo sviluppa qui una critica della propria visione olistica del politico.

Mentre l’analisi della ragion di Stato, in Meinecke, s’iscrive sull’asse vita-espansione-potere, essa si inscrive in Foucault sull’asse governamento-regolamentazione-soggettività. Si è visto, come tale analisi si costruisca a a partire dal rovesciamento dello storicismo, che si esprime in parte attraverso un uso nietzschiano della storia critica, ed ancora – come sembra – attraverso uno sforzo per venire fuori dal discorso di guerra. Per Meinecke, per quanto la cosa possa rattristarlo, la guerra resta il fondamento permanente della vita degli Stati. Lo Stato moderno, lungi dall’essere divenuto l’agente di un’etica collettiva superiore, non è che uno strumento di lotta per la potenza. Come combatterlo, da quel momento, se non in termini di guerra o di pura morale?[93]. Scartando la seconda risposta a vantaggio della prima (era l’alternativa posta nel dibattito con Chomsky ), Foucault non poteva in seguito oltrepassarla se non che a partire da una critica interna allo storicismo. Questa volontà di dissociare la critica storica dal discorso di guerra è ancora confermata dalla constatazione, da parte di Foucault sorprendente, della rottura machiavelliana.

B.Il posto di Machiavelli .

Mi permetto, per essere breve, di rinviare su questo punto al mio articolo sulla “ragion di Stato antimachiavelliana”[94]Ricorderò semplicemente:

a) che per Meinecke il senso storico moderno deriva dall’idea di ragion di Stato messa in luce da Machiavelli e che, di conseguenza, lo storicismo è per sua natura machiavelliano;

b) che Foucault, nella Volontà di sapere , elogiando Machiavelli per essere stato “uno dei pochi a pensare il potere in termini di rapporti tra forze”, propose di “fare un passo ulteriore” e di “sganciarsi dalla figura del Principe”[95];

c) che egli si serve di tutt’altro linguaggio nel suo corso del 1978 : “Lungi dal pensare che Machiavelli apra il campo alla modernità del pensiero politico, direi che egli invece segna la fine di un’età in cui (…) egli rappresenta il culmine di un momento in cui il problema era quello della sicurezza del principe e del suo territorio” (STP,3)[96]. Non è più sufficiente, allora, distaccarsi dalla figura del Principe. È con la problematica stessa del Principe che bisogna rompere, per esplorare il campo della governamentalità.

C. L’imporanza del pensiero tedesco del XVII secolo.

Secondo Meinecke, “non si riscontra nell’opera tedesca (del XVII secolo), quanto a ragion di Stato, nessun pensiero veramente nuovo e importante”[97]. Il discorso tedesco della ratio status si ridurrebbe a una piatta letteratura accademica, preoccupata, nel suo sterile formalismo, di preservare le tradizioni patriarcali dello Stato dell’Impero. Foucault, al contrario, afferma che proprio in Germania si costituisce nel XVII secolo la scienza dello Stato : “Lo Stato come oggetto di sapere, come strumento e luogo di acquisizione di conoscenze specifiche, si è sviluppato più rapidamente in Germania che in Francia e in Inghilterra”.[98] Laddove il primo non vede che un vuoto, di cui l’assenza stessa del concetto tedesco per tradurre la ragione di Stato costituisce il primo sintomo, il secondo percepisce al contrario una estrema densità di discorso, sotto il concetto originale di Polizia . È questa la prova che essi non parlano affatto della stessa ragion di Stato[99]. Associandola strettamente alla scienza della “polizia”, cioé a questa forma specifica di sapere e di intervento politico che ha per oggetto non solamente il buon ordine pubblico, ma il numero degli uomini, le necessità della vita, la salute – “tutto ciò che può contribuire al bene dei cittadini” (von Justi[100] ) – al fine di accrescere la potenza interna dello Stato, Foucault sposta il problema dalle condizioni contingenti dell’azione alle strutture regolari del governamento. Questo spostamento gli permette di dissociare la ragion di Stato dalle tecniche di abilità machiavelliane, di riportarla grazie alla scienza della polizia , al modello pastorale cristiano, di analizzarla infine non in termini di inganno, di menzogna o di dissimulazione, ma in quanto sapere esatto e rigoroso. Egli così rientra nei percorsi dei lavori realizzati da trent’anni, in Germania e in Italia, sul cameralismo e suala Polizeiwissenschaft [101] e che rimangono, nei contributi migliori, totalmente sconosciuti in Francia.

È interessante, in particolare, riferire le sue analisi alle ricerche effettuate dallo storico G. Oestreich sul neostoicismo nel XVII secolo, che hanno profondamente rinnovato a partire dagli anni ’50 lo studio delle condizioni in cui emerse lo Stato moderno[102]Fra i numerosi punti di convergenza appaiono subito: critica dello schema machiavelliano, necessità di sostituire il razionalismo statuale nel quadro di un processo più largo di disciplinamento sociale[103], spostamento della domanda “Chi comanda” (problema della sovranità) alla domanda “Come esercitare il potere?” (arte del governamento)[104], valorizzazione storica dell’esempio tedesco concepito come laboratorio, teorico e pratico, di nuove tecniche di gestione collettiva. Se si lascia da parte la tesi di Oestreich circa l’influenza determinante di Giusto Lipsio, la sua concezione della ragion di Stato – come elemento di un sistema generale di disciplina derivato dalla deteologizzazione delle forme di autorità[105]coincide a ben guardare con la griglia di analisi messa in campo da Foucault in Sorvegliare e Punire . “Non crudelitas, sed disciplina ! “. Questa formula di François de Clary che riassume, secondo Oestreich, il programma politico dell’assolutismo alla fine delle guerre religiose[106], si potrebbe applicare al mutamento, di certo più tardiva, descritto da Foucault nel campo penale. Si trova, dunque, in Oestreich, mutatis mutandis , un’immagine assai vicina a ciò che Foucault avrebbe potuto dire sulla ragion di Stao nel 1975. Due esempi : 1) Oestreich sottolinea l’importanza, prima del progetto disciplinare, dellPolizeiwissenschaft nello sforzo minuzioso di regolamentare la vita collettiva e individuale. “La concezione del benessere generale e della buona polizia era strettamente legata all’idea di disciplina”[107]. 2) Egli paragona la disciplinarizzazione attuata dallo Stato assolutista con la democratizzazione politica del XIX secolo non per contrapporvisi, ma al contrario per sottolineare come la seconda presupponga la prima[108]. Ora è sbalorditivo che, affrontando nel 1978 la questione della ragion di Stato, Foucault la orienti in tutt’altra direzione: non quella di un rafforzamento militare e burocratico dello Stato moderno attraverso meccanismi di assoggettamento sempre più rigorosi, ma quella di una limitazione della potenza governamentale. Pur se vi sono negli scritti di Oestreich gli elementi di una critica storica di Meinecke, questa si iscrive ancora nella problematica dello Stato-potenza. L’originalità di Foucault è di aver mostrato che – senza negare la relazione della ragion di Stato con la guerra – la si poteva riferire ad ogni altro tipo di fenomeni, trovando la loro unità non nel modello istuzionale dell’esercito, ma nello spazio nascente dell’economia. Ricollegando così, grazie al problema della popolazione,la ragion di Stato all’emergere del mercato, Foucault senza dubbio obbligava a rileggere sotto nuova luce i teorici del governamento dopo il XVI secolo Ma egli non faceva altro che allontanarsi da Machiavelli. Egli prendeva altresì distanza nei confronti di alcune sue analisi. Niente forse mette meglio in evidenza lo spostamento operato dalla problematica governamentale in rapporto alla griglia disciplinare che la maniera in cui Foucault esplicita la famosa frase di Adam Smith su la “mano invisibile”[109] (NBP ,11). Bisogna comprenderla, in effetti,come una critica radicale del Panopticon . Si sa quale posto occupava, in Sorvegliare e Punire, l’utopia architetturale concepita da Bentham alla fine del XVIII secolo in vista di una razionalizzazione dell’amministrazione penale: figura idealtipica dello Stato di polizia, che fa “funzionare il progetto di una universale visibilità (…) a vantaggio di un potere rigoroso e meticoloso”[110]. A differenza della sovranità che si manifestava nella esibizione, il potere disciplinare si esercitava in maniera invisibile, imponendo a coloro che sottometteva un principio di visibilità obbligatoria. Il fatto di essere visto senza interruzione, di poter sempre essere visto, mantiene nel suo assoggettamento l’individuo disciplinato[111]. Vedere tutto senza esser visto: la prigione ideale benthamiana rappresentava in qualche modo la formalizzazione di un meccanismo di controllo che non cessava di estendersi dopo l’età classica, e da cui le scienze umane stesse traevano la loro esistenza[112]. Si comprende allora, essendo ogni sapere ordinato secondo la massimizzazione del potere, che non si è mai dato contro-potere se non che dal punto di vista di un discorso di guerra. Ora se l’anatomo-politica[113]delineava la figura di un potere tanto più efficace quanto più sapiente, che si esercitava su unità sempre offerte al suo sguardo, l’economia politica mette in campo una rappresentazione del tutto contraria: non più un potere che vede tutto e tende ad accrescere indefinitamente la propria influenza, ma un potere cieco, che si accresce soprattutto a motivo della sua invincibile incapacità ad autolimitarsi.

L’importante, in effetti, nella “mano invisibile”, non è tanto la mano, sostituto di una provvidenza che annoda le fila disperse di tutti gli interessi, quanto la sua invisibilità. Questa implica che nessun agente economico debba riguardare il bene generale[114], l’interesse della società (cioé, l’accrescimento massimale delle sue rendite annuali) trovandosi meglio servito allorchè ciascuno operi in previsione del guadagno personale. Per questo il sovrano stesso non può intervenire nel processo economico. La critica di Smith alle tesi mercantiliste è troppo conosciuta perchè sia necessario insistervi. Ma Foucault ne fa discendere la conseguenza che, in un sistema retto dalla meccanica degli interessi, il sovrano – incapace di acquisire un punto di vista totalizzante – deve essere cieco. L’inconoscibilità stessa del processo economico nel suo insieme rende impossibile la composizione naturale degli interessi. Ne deriva un nuovo tipo di limitazione della potenza statuale, del tutto estraneo – secondo Foucault – alla dialettica del contratto, che consiste nell’opporre al sovrano non il ricordo dei diritti che non si possono trasgredire, ma la realtà della sua stessa impotenza. Egli non deve voler controllare l’industria dei particolari, perchè egli non può sapere come essa concorre più efficacemente al bene generale[115]. Questa è la dottrina della “libertà naturale”. L’economia politica, denunciando i paralogismi di una totale visibilità dello Stato al potere che l’amministra, si presenta così come “critica della ragione governamentale”. Si vede dunque come Foucault non si contenti certamente, come aveva fatto Élie Halévy[116], di rilevare in Bentham l’apparente contraddizione logica tra naturalismo economico e artificialismo giuridico. Egli le oppone come due razionalità eterogenee l’una all’altra. La sua fiducia nel “principio d’ispezione universale”, che egli propose di applicare alle manifatture, agli ospedali ed alle scuole, aveva condotto Bentham, in un eccesso di entusiasmo, a paragonare il potere di sorveglianza all’onnipotenza divina[117]. Il dispositivo disciplinare si iscrive, ancora, nel suo progetto tiotalizzante, in una visione teologica della società. All’inverso, non c’è posto per Dio nel processo economico. L’economia, allo stesso tempo che dimostra l’impossibilità di un punto di vista globale sullo Stato, offre la prima teoria atea del funzionamento sociale. Foucault, d’altro canto, prolunga l’analisi fatta da Oestreich della deteologizzazione del mondo moderno, dimostrando che se essa in una prima fase ha preso una forma disciplinare[118], è poi nella critica liberale delle mire totalizzanti dello Stato di polizia che essa ha avuto il suo pieno compimento.

Lo spostamento dei problemi sul piano governamentale conduce Foucault, di conseguenza, a ricercare nel discorso economico – e non più in quello della guerra – gli elementi di una critica della ragione politica[119]. Non si vuole certamente sostenere che il mercato sia il luogo di una libertà immediata e piena da far valere contro tutti gli eccessi del governamento. Foucault mostra, al contrario, che la libertà di cui ha bisogno il liberalismo per funzionare deve essere prodotta per un’azione permanente del governamento, ma ancheprotetta dalle usurpazioni che la minacciano[120]. È il calcolo del costo di fabbricazione di questa libertà che costituisce il problema della sicurezza. L’economia non è certo il campo alla fine ritrovato della pura spontaneità individuale, ma una delle logiche che reggono i rapporti attuali tra governanti e governati. Se si può, nella resistenza al potere, uscire da un discorso di guerra e “superare la linea”, è perchè questa non passa più solamente tra un sovrano e dei sudditi, o tra istituzioni e corpi, ma all’interno stesso della pratica governamentale, tra una tendenza meccanica a estendere l’impresa dello Stato e una tendenza invece economica a ridurla. Questo non vuol certo dire che la libertà si deve difendere in termini puramente economici, ma che piuttosto l’economia crea uno spazio di gioco nuovo per la rivendicazione della libertà.

Niente di sorprendente, allora, nel fatto che Foucault accosti Adam Smith a Kant, dopo aver delineato l’economia politica quale critica della ragione governamentale. Bisogna prendere il termine critica , in questo caso, nel suo significato filosofico: allo stesso modo in cui l’uomo non può conoscere la totalità del mondo, egualmente il sovrano non può conoscere la totalità del processo economico (NBP ,11). La critica della sovranità non procede più da un antigiuridicismo a priori , ma si trova sviluppata nell’analitica della finitudine. Non è certo dunque contro i Lumi, come affermava Habermas, ma all’interno dello spazio critico da questi aperto, che Foucault sviluppa la sua analisi del potere. Lungi dall’intraprendere attraverso questi una critica radicale della ragione, si può dire al contrario che egli ne mostri la vanità. La ragion di Stato, quale Foucault ricolloca nella storia, nel pastorato cristiano e nella bio-politica moderna, è l’esempio più probante che essa non segnala certamente, dietro ogni ratio , la tetra costrizione di una violenza totalitaria. Se è vero che, secondo una certa tendenza, essa conduce a una dominazione illimitata, essa porta, secondo un’altra tendenza, all’autolimitazione governamentale del liberalismo: ragione del massimo di Stato e ragione del minimo di Stato. La ragione , fosse pure quella dello Stato, non è dunque mai altro che l’articolazione complessa di ragioni multiple.

(traduzione italiana di Giulio Gentile)


Note


[*] Questo saggio è apparso nel volume Situations de la démocratie , raccolta di saggi organizzata dalla redazione della rivista “La Pensée Politique”, nella collana “Hautes Études”, Paris, (c) Seuil-Gallimard, 1993, pp. 276-298; la pubblicazione della traduzione italiana è stata resa possibile – oltre che dalla pronta adesione dell’autore – grazie alla gentile concessione degli editori; vogliamo in questa sede esprimere la nostra gratitudine.

[1] La Dialectique de la raison, Paris, Gallimard, coll. “Tel”, 1947, p.24.

[2] Cfr. per esempio Qu’est-ce que la critique? (conferenza pronunciata il 27 maggio 1978), “Bullettin de la Societé française de philosophie”, VXXXIV (1990), ndeg.2, pp. 42-45.

[3] “Omnes et singulatim”. Vers une critique de la raison politique (1979), “Le Débat”, ndeg.41, sett.-nov. 1986, p.6.

[4]Cfr. J. Habermas, Le Discours philosophique de la modernité , Paris, Gallimard, 1987, p. 3 (trad. it. Il Discorso filosofico della modernità , a cura di Emilio e Elena Agazzi, Bari, 1987, pp. 270-296, ma anche pp. 241-269).

[5] Ibid., p. 304-305, nota 1.

[6] Ibid., p. 305

[7] Interessante messa a punto in Space, Knoweledge and Power , in P.Rabinow (ed.),The Foucault Reader , 3 ed. Penguin Books, pp. 248-249, e soprattutto in Critical Theory/Intellectual History , in M. Foucault, Politics,Philosophy,Culture , Routledge, 1988, pp. 17-46.

[8] “Omnes et singulatim”, cit.., pp. 6-7.

[9] L’Étique protestante et l’Esprit du capitalisme, trad. fr. Paris, Plon, 1964, p. 23 (trad. it. L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo , a cura di P. Burresi, Firenze, La Nuova Italia, 1965, pp. 63-81).

[10] Ivi., p. 51, nota 8, e pp.81-82: “La razionalità è un concetto storico che rafforza tutto un mondo di opposizioni”.

[11] C.Colliot-Thélène,Max Weber et l’Histoire , Paris, PUF, 1990, p. 61.

[12] What is Enlightment?, in The Foucault Reader, op. cit.., p. 43. Cito il testo francese dopo la registrazione ufficiale conservata alla Biblioteca di Saulchoir.

[13]Cfr.Space, Knoweledge and Power , cit., p. 249: l’immagine di “questa specie di porta girevole della razionalità ci rimanda alla sua necessità, alla sua indispensabilità, e nello stesso tempo, alla sua intrinseca pericolosità”.

[14] Foucault gli ha dedicato un corso nel 1983 riprodotto nel Magazine littéraire, n. 207, maggio 1984, p. 35-39. Cfr. pure Qu’est-ce que la critique?, cit., pp. 40-41; What is Enlightenment?, cit., pp 32-37. Bisognerebbe confrontare questa analisi con quella di Horkheimer e di Adorno in La Dialectique de la raison , op. cit., pp. 92-93 e passim..

[15] Le Magazine littéraire, cit., p. 35.

[16] Sul presupposto di questa lettura di Kant cfr. le penetranti osservazioni di P. Macherey, Pour une histoire naturelle des normes , in Michel Foucault philosophe , Paris, Éd du Seuil, 1989, pp. 208-210.

[17]Cfr. supra , nota 2.

[18] Cfr. Qu’est-ce que la critique? , cit., p. 41, e le osservazioni d’H. Birault al margine della discussione, p. 55.

[19] Trad. francese Juger , Paris, Éd du Seuil, 1991.

[20] Articolo Michel Foucault , in Dictionnaire des philosophes , Paris, PUF, 1984, p. 943. Questo testo, firmato Maurice Florence, è un estratto dell’antica prefazione dei Aveux de la chair (inedito), ad eccezione del primo paragrafo redatto da F. Ewald. Ringrazio F. Ewald per avermi dato questa precisazione.

[21] Cfr. Qu’est-ce que la critique? , cit., pp. 47-53.

[22] What is Enlightenment? , cit., p. 47.

[23] Su questo tema kantiano, cfr. Les Mots et les Choses , Paris, Gallimard, 1966, cap.9.

[24] What is Enlightenment? , cit., p. 45 : “Si tratta … di trasformare la critica esercitata in forma di limitazione necessaria in una critica pratica nelle forme della possibile liberazione”.

[25] Cfr. Qu’est-ce que la critique? , cit., p. 59.

[26] Benchè Foucault stesso abbia sottolineato a più riprese il legame tra il suo travaglio teorico e la sua propria esperienza vissuta. Cfr. Est-il important de penser? , “Libération”, 30 maggio 1981, dove egli definisce ciascuno dei lavori come un “frammento d’autobiografia” (vedi l’eccellente commento di P. Macherey, Foucault: éthique et subjectivité , “Autrement”, n. 102, novembre 1988, pp. 96-98). Cfr. pure Politics and Ethics , in The Foucault Reader , cit.., p. 374.

[27] Cfr.Une flèche dans le coeur du temps présent (articolo interamente dedicato al rapporto Foucault-Kant),Critique , nn. 471-472, agosto-settembre 1986, p. 795.

[28] Su questo concetto centrale del pensiero di Foucault, cfr. L’Ordre du discours , Paris, Gallimard, 1971, pp 59-60 (trad. it. L’Ordine del discorso , a cura di A. Fontana, Torino, 1972); cfr. anche il concetto di événementialisation , in Qu’est-ce que la critique? , cit., p. 48.

[29]Les intellectuels et le povoir (colloquio di Foucault con Deleuze), “L’Arc”, 1972, p. 7 (trad. it. Microfisica del potere , a cura di A. Fontana-P.Pasquino, Torino, Einaudi, 1977, pp. 107-118).

[30] Vérité et pouvoir , “L’Arc”, 1977, pp. 19-20.

[31] Ibid.; corsivo dell’autore.

[32] Ibid.; corsivo dell’autore.

[33] È ciò che rende comprensibile la sua affermazione: “...ciò che mi interessa è più morale che politico o, in ogni caso, politica come etica ” (in Politics and Ethics , in The Foucault Reader op. cit.., p. 357). Bisogna distinguere, inoltre, questa attitudine negativa dell’insistenza di Foucault sulla positività del potere, produttore di realtà e di conoscenza (cfr.Surveiller et Punir , Paris, Gallimard, 1975, p. 196; La Volonté de savoir , Paris, Gallimard, 1976, p. 109 (trad. it.Sorvegliare e punirre, a cura di A.Tarchetti, Torino, Einaudi, 1976, pp. 186 segg.; La volontà di sapere , a cura di P.Pasquino e G.Procacci, Milano, Feltrinelli, 1978, pp. 81-87). Il potere non funziona certo solamente “per negazione” (interdizione, repressione, esclusione) perchè non risulta da una “teoria”, ma da una “analitica”.

[34] Le povoir et la norme , cit.; una traduzione di questo corso è comparsa inoltre in Michel Foucault, Power, Truth, Strategy , Sydney, Feral Publications, 1979.

[35] H.Dreyfus- P.Rabinow, Michel Foucault, un parcours philosophique, trad. fr. Paris, Gallimard, 1984, pp. 297-307 (prima ediz. americana, 1982).

[36] Le pouvoir et la norme , cit., p. 1; corsivo dell’autore.

[37]Surveiller et punir , cit., p. 31; cors. mio (cioè di Senellart; trad. it. cit., p. 30). Cfr. il commento di Deleuze nel 1975: “Egli dimostra che la legge non é stato di pace più che il risultato di una guerra vinta: essa è la guerra stessa e la strategia di tale guerra in atto”, in “Critique”, n. 343, dic. 1975, p. 1212; ripreso in Foucault , Paris, Éd. de Minut, 1986, p. 38.

[38] Cf.ancora Surveiller et Punir , cit., p. 170 (trad.it. cit., p. 184): “Si vuole che la guerra come strategia sia la continuazione della politica. Ma non si può dimenticare che la “politica” è stata concepita come la continuazione, se non esattamente e direttamente della guerra, almeno del modello militare come mezzo fondamentale per prevenire il disordine civile”.

[39] La volonté de savoir, cit., p. 135 (trad. it. cit., p. 83), sulle ragioni della preferenza accordata al modello strategico in rapporto al modello giuridico.

[40] Cfr.M.Foucault, Résumé des cours ,1970-1982, Paris, Julliard, 1989, pp. 86-87.

[41] Il faut défendre la societé , inedito in francese. Sono state pubblicate in italiano le lezioni del 7 e 14 gennaio in Microfisica del potere , Torino, 1977; in tedesco quelle del 21 e 28 gennaio sotto il titolo significativo Vom Licht des Krieges zur Geburt der Geschichte , Berlin, Merve Verlag, 1986; ediz. integrale in italiano Difendere la società , Firenze, Ponte alle grazie, 1990.

[42]Cfr.Esprit , n. 5, 1968, p. 854.

[43] Corso del 1976, lezione 7. Il sapere storico non può comprendere la guerra, perchè la attraversa e la determina.

[44] Résumé des cours, cit., p. 91.

[45] Corso 1976, lezione 7.

[46] Nietzsche, la généalogie, l’histoire , in Hommage à Jean Hyppolite , Paris, PUF, 1971, pp. 145-172 (trad. it., Microfisica del potere , cit., pp. 29-54).

[47] Ivi , pp. 158-160.

[48] Ivi., p. 167.

[49] Sur la justice populaire: débat avec les maos , in “Les Temps modernes”, n. 310 bis, 1972, pp. 335-366.

[50] Fascismes : l’ancien et le nouveau , ivi , pp. 266-334.

[51] Ivi , p. 30.

[52] Ivi , p. 350; corsivo dell’autore.

[53] Human Nature: Justice versus Power , in F.Elders (ed.), Reflexive Water: the Basic Concerns of Mankind , Londres, Souvenir Press, 1974, pp. 133-197.

[54] L’oeil du pouvoir , in J.Bentham, Le Panoptique , Paris, Belfond, 1977, pp. 9-31.

[55] Ivi , p. 30.

[56] La problématique du “gouvernement” et de la “véridiction” , in “Actes”, n. 54, estate 1986.

[57] Governmental Rationality: an Introduction , in G.Burchell, C.Gordon et P.Miller (eds.),The Foucault Effect. Studies in Governmentality , Londres, Harvester Wheatsheaf, 1991, pp. 1-51.

[58] Foucault et le problème du gouvernement , in Ch.Lazzeri et D.Rynié (a cura di), La Raison d’ Êtat:politique et rationalité , Paris, PUF, pp. 117-140.

[59] Art. cit., p. 19.

[60] Art. cit., p. 123.

[61] Art.cit., pp. 4-5. Cfr. La Volonté de savoir , cit., pp. 183-184 (trad. it. cit., p. 124).

[62] Ivi , p. 183.

[63]Per una anlisi più approfondita di questi due aspetti e della loro articolazione, cfr. M.Foucault, corso del marzo 1976, pubblicato con il titolo Faire vivre et laisser mourir:la naissance du racisme , in “Les Temps modernes”, n. 535, febbraio 1991, pp. 39-52.

[64] Cfr. Le Normal et le Pathologique , Paris, PUF, 1966, pp. 171-191.

[65] Op.cit., pp. 185-186;

[66] Faire vivre et laisser mourir , cit., p. 51.

[67]“La società di normalizzazione non è certo (…) una specie di società disciplinare generalizzata le cui istituzioni sarebbero diffuse e avrebbero finalmente ricoperto tutto lo spazio; è, credo, una prima interpretazione, insufficiente, dell’idea di società di normalizzazione” (ivi ). Cfr. anche Power and Ethics , cit., p. 380: “Il potere di tipo disciplinare(…) è assolutamente localizzato, è una formula inventata in un momento dato(…). Il potere non è disciplina; la disciplina è una possibile procedura del potere”.

[68] Les intellectuels et le povoir , cit., pp. 9-10 (in Microsifica del potere, cit.).

[69] Cfr. Deux essais sur le sujet etb le pouvoir , in H.Dreyfus-P.Rabinow, Michel Foucault,un parcours philosophique, cit., p. 303: i tre tipi di lotta, contro le forme di dominio, di sfruttamento e di assoggettamento.”Oggi esiste la lotta contro [queste ultime] che prevale maggiormente, anche se le lotte contro il dominio e lo sfruttamento non sono scomparse, anzi al contrario”.

[70] Cfr. La poussière et la nuage , in M.Perrot (sotto la direzione di), L’impossible Prison , Paris, Seuil, 1980, p. 32.

[71] Deux essais sur le sujet et le pouvoir , cit., p. 314.

[72] Ivi ; corsivo dell’autore.

[73] Ivi , p. 315.

[74] Pouvoirs et stratégies (conversazione), in “Les revoltes logiques”, n. 4, primo trimestre 1977, p. 96: “Per pensare il legame sociale, il pensiero politico “borghese” del XVIII secolo si è dato la forma giouridica del contratto . Per pensare la lotta, il pensiero “rivoluzionario” del XIX seolo si è dato la forma logica della contraddizione : e questo non vale più di quello”.

[75] Ivi .

[76]L’Idée de la raison d’État dans l’histoire des temps modernes (1924), Genève, Droz, 1973. (trad. it. L’Idea della ragion di Stato nella storia moderna , a cura di D.Scolari, Firenze, Sansoni, 1970).

[77] Un buon sunto in D.Seglard, cit., pp. 124-125.

[78] La gouvernementalité , in “Actes”, n. 54, estate 1986, p.14; corso publicato anche in gran parte in Le Magazine littéraire , febbraio 1978.

[79] Cfr. su questo punto che non posso qui sviluppare, Deux essais sur le sujet et le pouvoir , cit., pp. 304-307; Omnes et singulatim , cit., pp. 7-20; Résumé des cours , cit., p. 100.

[80] Cfr. l’analisi di questo corso da parte di C.Gordon,The Foucalt Effect , cit., pp. 14-27, e di G.Burchell, Peculiar Interest:Civil Society and governing the System of Natural Liberty , ivi , pp. 119-150.

[81] Cfr. op. cit., pp.29-30. Le regole dell’analisi del sesso nella pastorale riformata dovevano essere esposte nel secondo volume annunciato de l’HIstoire de la sexualité (p.30, n.1; trad. it. L’uso dei piaceri , a cura di L.Guarino, Milano, Feltrinelli, 1984, pp.16-17).

[82] Cfr.Résumé des cours , cit., pp. 123-129.

[83]Ivi , p. 135.

[84] Cfr. sopra nota 78.

[85] Lezione 11. Cfr.Omnes et singulatim , cit., pp.28-33; Résumé des cours , cit., p. 105.

[86] Cfr. la presentazione rigorosa e chiara che ne fa D.Séglard nell’articolo citato, pp. 127-136.

[87]Op. cit. , p. 23 : “Avendo Meinecke pubblicato un libro tra i più importanti sulla ragion di Stato, parlerò essenzialmente della teoria della polizia”.

[88] Cfr. le sue memorie,Strassburg-Freiburg-Berlin,1901-1919 , Stuttgart, 1949, pp. 191-192.

[89] Citato da Chabod, Notice sur F. Meinecke , in F.Meinecke, L’Idée de la raison d’État , cit., p. XXVI.

[90]Su questa presa di posizione nominalistica, cfr. La Volonté de savoir , cit.,p. 123 (trad.it. cit. , p. 156); Résumé des cours , cit., p. 110 (Foucault fa riferimento a P.Veyne; cfr. di quest’ultimo Comment on ècrit l’histoire , Paris, Éd. du Seuil, coll. “Points Histoire”, pp. 89-93, e Foucault révolutionne l’histoire (1978)ivi , pp. 207-211); l’articolo Michel Foucault , in Dictionnaire des philosophes , cit., p. 943.

[91] Cfr. Nietzsche, la généalogie, l’histoire , cit., p. 159 (trad. it. cit., p. 167).

[92] Cfr. L’idée de la raison d’État , cit., Introduction , p. 11: “…lo Stato essendo un essere organico la cui forza non si mantiene nella sua pienezza, se non che a condizione che il potere si accresca ancora da un lato o da un altro, la ragion di Stato designa ugualmente gli scopi e i mezzi di questo accrescimento” (trad. it. cit., pp. 21-22).

[93] Questa posizione in favore dell’ ethos , nel suo conflitto eterno con il kratos, motiva Meinecke ad “auspicare una autentica Società delle Nazioni” al fine di fissare limiti a una ragione di Stato ormai abbandonata, a causa dell’azione convergente della logica militarista, nazionalista e capitalista, allo scatenamento di forze cieche.

[94]In Ch.Lazzeri-D.Reynié (a cura di ), La Raison d’Êtat:politique et rationalité , cit., pp. 23-24.

[95] La volonté de savoir , cit., p.128 (trad. it. cit., pp. 83-84 ).

[96] Cfr. pure La gouvernamentalité , cit., pp. 7-8.

[97] L’Idée de la raison d’État op. cit. , p. 128.

[98] Histoire de la médicalisation (1974),in “Hermès”, n. 2, dic. 1988, p.16.

[99] Per un’analisi più approfondita del problema posto dalla ragion di Stato tedesca, cfr. M.Senellart, Y-a-t-il une théorie allemande de la raison d’État au XVII[100] siècle? Arcana imperi et ratio status de Clapmar à Chemnitz , in Y.Ch.Zarka (a cura di), Thèoririciens et Théories de la raison d’État au XVIIe siècle, Paris, PUF, 1993.

[100] Éléments géneraux de police (1756), trad. fr., 1769, Introduction , [[section]] 4.

[101]Cfr. H.Maier, Die Šltere deutsche Staats-und Verwaltungslehere , prima ed., 1966, DTV, 1986; Pierangelo Schiera, Dall’Arte di governo alle Scienze dello Stato:il Cameralismo e l’Assolutismo tedesco, Milano, Giuffré, 1968; M.Stolleis, Geschichte des šffentlichen Rechts in Deutschland, vol. I, 1600-1800, Munich, C.H. Beck, pp. 334-394; P.Pasquino, Police spirituelle et police terrestre , in Ch. Lazzeri-D.Reynié (a cura di), La Raison d’État :politique et rationalité , cit., pp. 83-116.

[102]Cfr. Geist und Gestalt des frŸhmodernen Staates, Berlin, 1969; Antiker Geist und moderner Staat bei Justus Lipsius (1547-1606), Gšttingen, Vandenhoeck Ruprecht, 1989.

[103]Cfr.particolarmente Strukturprobleme des europaischen Absolutismus , in Geist und Gestalt., cit., pp. 187-196; critca del concetto weberiano di razionalizzazione ,ivi , pp. 187 e 194.

[104] Politischer Neustoizismus , ivi , pp. 113-114.

[105] Sui rapporti tra il problema religioso della coesistenza posto dalle guerre confessionali del XVI secolo, la deteologizzazione della vita pubblica e il rafforzamento militare e burocratico dello Stato, cfr. Strukturprobleme , cit., pp. 189-190.

[106] Ivi , p.190.

[107] Ivi , p.193.

[108] Ivi , p.195; cfr. M.Foucault, Surveiller et Punir , cit., pp. 223-224 (tr. it. cit., pp. 213 e sgg.).

[109] Nella Richesse des nations (1776), IV, 2, Paris, Garnier-Flammarion, vol. II, p. 43, e non nei passi della Théorie des sentiments moraux (1759) dove essa appariva già collegata all’idea di Provvidenza. (Cfr.La ricchezza delle nazioni , trad. it. a cura di F.Bartoli, C.Camporesi e S.Caruso, Milano, ISEDI, 1973, pp. 11 e sgg.).

[110] L’oeil du pouvoir , cit., p.16.

[111]Surveiller et Punir, op. cit., p. 189 (cfr. trad. it., pp.210 e seg.). Cfr. anche É.Halévy,La formation du radicalisme philosophique, Paris, Alcan, 1901, t. I, pp. 148-149.

[112] Surveiller et Punir, op. cit., p. 227; cfr. pure pp. 195 e segg. Sul Panopticon come modello di funzionamento delle società moderna, cfr. Résumé des cours, op.cit., p. 44 (passaggio, secondo le parole di Julius, da una società dello spettacolo a una società di sorveglianza): “Il secolo XIX ha fondato l’età del Panoptismo” (trad. it. cit., p. 213 e segg.).

[113] La Volonté de savoir, op.cit., p. 185 (trad. it. cit., pp. 124 e segg.).

[114] La Richesse des nations, op. cit., t. II, p. 43. “Non ho mai visto che coloro che aspiravano, nelle loro imprese commerciali, a operare per il bene generale, abbiano realizzato molte cose buone” (trad. it. cit., pp.11 e segg.).

[115] Ivi ,IV, 9, p. 308.Sulla fragilità del criterio smithiano di delimitazione dello Stato attraverso l’autoregolazione del mercato – e dunque sulle ambiguità della sua critica dello Stato di polizia – , cfr. P.Rosanvallon, La Crise de l’État-providence, Paris, Éd. du Seuil, coll. “Points Politique”, 1984, pp. 64-69.Va da sé che, per Foucault, la concezione di A.Smith non costituisce certo il fondamento di una teoria positiva della società, ma un momento decisivo della critica della ragione governamentale; conviene interpretare tale critico non come negazione del politico, ma come destituzione di ogni potere che si esercita nella forma totalizzante della sovranità.

[116] La formation du radicalisme philosophique, op.cit., t. I, cap. 3.

[117] Ivi , p. 149.

[118]A tale proposito sarebbe interessante mostrare come, parallelamente al neostoicismo, diverse correnti del pensiero cristiano, cattolico e riformato, hanno contribuito a questa deteologizzazione, confermando la tesi di M.Gauchet che il cristianesimo “sarà stata la religione dell’uscita dalla religione “(Le Désenchantement du monde, Paris, PUF, 1989, cap. 3, p. III). Per una prima analisi, in questo senso, del ruolo di G.Botero, come teorico della ragion di Stato, cfrM.Senellart, Machiavélisme et Raison d’État, Paris, PUF, 1989, cap. III, pp. 56-83; La raison d’État antimachiavélienne , cit. (cfr.supra , nota 94) pp. 29-41.

[119] La posizione di Foucault andrebbe accostata non solamente all’anarchismo democratico di Godwin e di Paine, alla fine del XVIII secolo, derivato dal principio dell’armonia naturale degli interessi, quanto al rimprovero mosso da C.Schmitt al pensiero liberale, in nome di un concetto di politica definito secondo la distinzione amico-nemico : “(…) non c’è una politica liberale sui genersis, non c’è che una critica liberale della politica” (La Notion du politique 1932), Paris, Calmann-Lévy, 1972, p. 117).Sul liberalismo come “riflessione critica sulla pratica governamentale”, cfr. Résumé des cours, cit., pp.113-116: contrariamente a C.Schmitt, Foucault vede,attraverso il dibattito pubblico, la condizione di un’autentica “vita politica”.

[120] Su questo paradosso di un automatismo crescente degli individui che producono una domanda di Stato sempre più intensa, cfr. M.Gauchet, Le Desenchantement du monde, op.cit., p. 263 (“Più [lo Stato] lascia fare, più in fin dei conti esso deve fare”), che propone una spiegazione assai differente, in termini di rappresentazione piuttosto che di regolazione ; cfr. egualmente dello stesso autore, prefazione a B.Constant, De la liberté chez les Modernes , Paris, Hachette, 1980, pp. 70-71.

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