Oltre la scienza governata, il tempo liberato

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di Federico Simonetti (Independent researcher)

Affrontare un testo complesso come La scienza governata[1] di Jean-Paul Malrieu non è facile, perché si tratta di un’opera animata da obiettivi e ambizioni molto diverse e segue di fatto tre direttrici principali: anzitutto un obiettivo politico che fa da occasione e sfondo a tutto il testo, ma accanto a esso ci sono un aspetto argomentativo e una serie di prese di posizione epistemologiche che rendono la lettura estremamente interessante, al di là del suo carattere militante. L’ambizione del testo è, in fondo, quella di suscitare una riflessione sul ruolo della scienza nel mondo contemporaneo, nel suo rapporto con la tecnica e con il potere.

L’obiettivo primario ed esplicito del testo è quello denunciare, in modo argomentato e ragionato, le modalità con le quali la ricerca scientifica è oggi gestita dal potere politico e condizionata da una serie di logiche soprattutto economiche che ne condizionano l’attività, al punto da provocare un declino che, per l’autore, è inesorabile. Si tratta, come evidente, di un obiettivo intimamente politico – e anche piuttosto ambizioso – che si inquadra nel contesto delle riforme universitarie portate avanti dal governo Sarkozy (2007-2012), contesto nel quale il testo è originariamente apparso nella sua versione francese, un momento storico in cui in Francia il mondo universitario e della ricerca pubblica erano oggetto di attacchi senza precedenti da parte dell’autorità politica, che li accusava di inefficienza e inadeguatezza nei confronti delle “sfide globali”. Eppure La scienza governata non è solo una testimonianza del valore della ricerca pura o una laudatio temporis acti che esalta o invoca l’eredità di un’era in cui l’università e la ricerca accademica erano centrali, importanti e autonome: già dalle prime battute, il testo ci aiuta a comprendere quale sia la posta in gioco nel cambiamento epocale delle riforme, ma più in generale del destino che aspetta le nostre società, nel momento in cui esse prendono la strada di una “economia della conoscenza” che debba “adeguarsi alle sfide globali”.

È proprio il tema della “conoscenza” a essere la posta in palio di questa trasformazione, e quale sia il valore che diamo alla conoscenza è la domanda fondamentale del testo: qual è il suo ruolo – ma di più, qual è la definizione che vogliamo usare di conoscenza nella formazione della società, nella formazione delle giovani generazioni, quale valore ha il conoscere per il futuro dell’umanità? Sono domande che, evidentemente, travalicano i confini di un testo d’occasione o di un intervento militante, tanto più se fatte da un intellettuale raffinato come Malrieu, che ha vissuto dall’interno e da una posizione privilegiata (è stato a lungo direttore di ricerca emerito al CNRS) i numerosi cambiamenti del mondo accademico fin dagli anni ‘60. È dunque un testo prezioso, sia per comprendere i numerosi meccanismi (spesso perversi) che fanno funzionare l’accademia in un nuovo modello manageriale e fortemente orientato al risultato, sia per suscitare delle domande più generali – domande che, secondo Malrieu, i decisori politici non si pongono a nessun livello – sul ruolo e il senso della ricerca scientifica all’interno del mondo contemporaneo. Nel nostro mondo, infatti, esiste ormai una colpevole confusione tra “scienza” e “tecnica” che rende possibile parlare in maniera disinvolta di “tecnoscienza”: questa confusione non è innocua e ha delle conseguenze sia sul lavoro della ricerca, sia sul ruolo della conoscenza nelle vite dei soggetti.

Il testo si apre, dunque, incaricandosi di fornire una distinzione epistemologica tra tecnica e scienza: in buona sostanza, per Malrieu, la scienza si interroga sul perché di processi, eventi e leggi che si muovono “a prescindere da noi”, laddove la tecnica risulta invece sempre indirizzata e finalizzata all’ottenimento di un risultato. La scienza, per l’autore, ha quindi in qualche modo a che fare con il religioso, con il divino, nella misura in cui ciò di cui si occupa è separato dalla necessità di produrre un risultato ma, soprattutto, noi “non possiamo farci niente”: la legge di gravitazione universale dei corpi è qualcosa su cui noi non possiamo esercitare la nostra volontà, esiste a prescindere da quanto noi vogliamo che esista e per questo è indipendente da noi, non possiamo “metterci mano”, non risponde alla nostra volontà. Ma in questo senso, non dipendendo interamente dalla nostra volontà, la ricerca scientifica è aperta al fallimento, il suo oggetto è per lo più ineffabile, potrebbe non essere lì dove lo cerchiamo: i risultati della ricerca scientifica “pura” non possono essere previsti e il fatto che gli esperimenti e le speculazioni non producano risultati utili o significativi è qualcosa di contemplato e tutto sommato cercato. Molte ricerche, molti esperimenti scientifici, partono infatti dalla volontà di mettere alla prova le leggi e le conoscenze fin qui dati per scontate, proprio allo scopo di capire perché quelle leggi funzionano o come funzionano. Al contrario per la ricerca “applicata”, quella ricerca che tenta di avere una sua applicazione tecnica, il fallimento è – per l’appunto – un fallimento, un’iterazione errata – da cui pure è possibile apprendere qualcosa su come fare ad arrivare al risultato per altre vie, ma che in fondo non dice nulla sull’obiettivo finale, se non marginalmente. In sostanza, la tecnica sa già dove vuole andare a parare, ha un obiettivo chiaro e finalizzato, deve solo cercare una strada per arrivarci. La scienza, invece, è esplorazione di una galassia ignota, non segue una linea tracciata e, spesso, gli ostacoli che trova sono luoghi e continenti immensi, nei quali è necessario avere il tempo di perdersi.

A fare da contesto, dunque, ai processi di riforma accademica e della ricerca che hanno caratterizzato l’inizio del terzo millennio, per Malrieu si è affermata nel tempo una confusione tra scienza e tecnica, segnalata dall’emergere della “tecnoscienza”, un termine nato soprattutto dalla narrazione mediatica e mediatico-politica che cerca di tenere insieme un approccio scientifico ma interessato, assieme rigoroso e pragmatico. Tale concettoide si sviluppa e “funziona” mediaticamente anche a causa della progressiva dipendenza di strumenti e tecniche specifiche da parte dei processi di analisi e scoperta scientifica: in molti campi, infatti, è ormai impossibile ricercare senza degli strumenti o delle procedure estremamente sofisticate. Tale riduzione concettuale a “tecnoscienza” è stata possibile grazie a fenomeni differenti, che evidenziano il progressivo intreccio di scienza e tecnica: anzitutto la ricerca scientifica, anche quella più astratta, dipende ormai da strumenti e software sempre più sofisticati, automazioni, processi di calcolo, etc. al punto che la singola scoperta può apparire, a un occhio disattento, ridotta al suo mero aspetto tecnico o tecnologico, come se grandi verità sul funzionamento della fisica uscissero in automatico dallo schermo di un computer; inoltre la scienza è ormai in buona parte costretta a dedicare buona parte del suo tempo di ricerca a produrre i propri oggetti, sia i suoi strumenti d’indagine, sia i propri oggetti indagati. Nel primo caso, possiamo immaginare quanti astrofisici abbiano lavorato alla progettazione del telescopio James Webb, di fatto dedicando la loro ricerca a produrre uno strumento utile all’affinamento strumentale dell’esplorazione dello spazio profondo – che è poi il loro campo di ricerca. Un esempio del secondo fenomeno è quello della fisica dei materiali che scopre nuove proprietà di sostanze che essa stessa crea attraverso una ricerca che è intrinsecamente tecnologica. Per quanto però scienza e tecnica possano apparire codipendenti e intrecciati, ciò non elimina la differenza tra le finalità intimamente diverse di scienza e tecnica (o di scienza e tecnologia), non eliminano cioè la differenza tra la domanda fondamentalmente diversa che esse si pongono.

In questione qui, più che la tensione tra due discipline, è piuttosto il tema della verità, questione filosofica fondamentale, nella sua costante articolazione tra il possibile (“ciò che è possibile fare”) e il necessario (“ciò che non può essere altrimenti”): la tecnica, appunto, e la scienza. D’altra parte è nell’articolazione di scienza e tecnica che si gioca la possibilità di produrre conoscenza, nel senso di produrre quella cognizione di causa che ci permette non solo di prevedere gli eventi, ma anche in qualche misura di capirli e comprenderli, facendocene una ragione. Una delle domande che si fa Malrieu è, infatti, quale livello di controllo voglia avere il “potere” sulla ricerca della verità: tendere verso la tecnica o la “tecnoscienza” significa avere già deciso quale sia in fondo la finalità del sapere, senza lasciare spazio al libero gioco della conoscenza. Per il “potere” che descrive l’autore, infatti, l’obiettivo della ricerca è uno solo: vendere prodotti e servizi. D’altra parte, quella della ricerca scientifica guidata dalla sola voglia di verità è un’illusione. Chi o cosa governi l’elaborazione di una teoria scientifica, non è mai questione oggettiva, ma sempre una questione di scelte politiche: una questione di rapporti di forza, interni alla società e all’accademia, ma è ancora di più una questione ideologica. Il punto è che, in quanto esseri umani, sembra dirci l’autore, ci è ancora necessaria una ragione per poter comprendere cosa succede nel mondo, a prescindere da quanto comfort possa essere prodotto dalla tecnologia, a prescindere cioè da quanti prodotti sia possibile produrre, commercializzare e vendere attraverso una ricerca incrementale. Il “potere”, sembra dirci Malrieu, è ormai completamente avviluppato in una coazione a ripetere, incapace di pensare più in là del medio termine e costantemente incarognito e insospettito dall’otium della scienza. Un potere, insomma, che sembra avere come principale obiettivo che i ricercatori smettano di battere la fiacca.

Ma di che tipo di potere stiamo parlando? L’analisi che Malrieu ci propone è quella di una distinzione tra poteri politici ed economici, gli uni sostanzialmente interessati al prestigio e al controllo delle risorse, gli altri preoccupati del profitto e della speculazione finanziaria: per quanto una rappresentazione così schematica degli interessi e delle forze in gioco possa mostrarsi utile ai fini di un discorso militante (anche se francamente piuttosto ingenuo), esso sembra tradire un certo fraintendimento dei processi in atto da ormai diversi decenni nell’ambito del decision making internazionale: è forse l’aver perso capacità di analisi e di presa su questi processi uno dei peccati più gravi proprio del discorso critico sul capitalismo, che spesso identifica con il “neoliberismo” la quasi totalità dei processi di adeguamento (o anche di aggressione) portati avanti da forze diverse, prima tra tutte la speculazione finanziaria, ma anche la progressiva erosione dello spazio pubblico e della definizione del pubblico interesse. L’idea che emerge del “potere” in queste pagine, è più quella di una intenzionalità monolitica e orientata, una sorta di gigantesco “consiglio di amministrazione del capitalismo” che ha in qualche modo “deciso” di imporre la propria “ricetta neoliberista” all’accademia, anziché essere il risultato di una complessa e frammentata combinazione tra scelte, esigenze, ristrettezze, etc. prodotte da attori diversi, in tempi diversi e per motivi diversi.

Nei capitoli centrali del testo, l’analisi di Malrieu si concentra sulla capacità di controllo della scienza e della conoscenza da parte del potere: nel processo di progressiva economicizzazione del sapere che descrive, l’obiettivo degli apparati di controllo non è tanto quello di evitare di “sprecare risorse”, quanto più della messa a profitto immediata di cervelli, talenti accademici, dipartimenti, università. In fondo, il terreno di scontro che Malrieu propone è il diritto per lo scienziato di ricercare per diletto anziché risultare un mero produttore di tecnologie, un ingranaggio della grande macchina capitalista.Il tema che solleva l’autore è, dunque, per sua natura morale e riguarda i valori di base delle nostre società e, più in generale, delle società a capitalismo avanzato: per Malrieu, in buona sostanza, è necessario interrogarsi su quale sia la finalità del nostro operare e in base a quali valori vengono orientate le nostre azioni, a quali domande fondamentali risponde la ricerca, che essa si svolga all’interno o all’esterno dell’accademia. Se essa possa rispondere alla domanda “per quale causa succedono le cose” oppure debba limitarsi a chiedere “per quale fine”. La scelta compiuta a partire dagli anni novanta dalla politica (o, ancora una volta, “dal potere”) in tutte le società a capitalismo avanzato, è quella di favorire processi economici e finalizzati, connotati da un ingresso da procedure di tipo manageriale all’interno degli istituti di ricerca.

D’altra parte, il campo della ricerca scientifica per come viene definito da Malrieu sembra essere del tutto condizionato da logiche di breve periodo e di ricerca dell’interesse immediato, segnato ormai dalla perdita di interesse per il valore della conoscenza ivi prodotta, da parte di tutti gli attori: ormai poco interessati alla produzione di nuova conoscenza sono i ricercatori, vittime di un sistema concentrato sulla produzione burocratica; profondamente concentrati sulla limitazione della discrezionalità e dell’otium necessari alla ricerca, interpretati come spreco di risorse, sono i decisori politici; pienamente dediti alla ricerca di nuove occasioni di business e di fonti di profitto, non solo per quanto riguarda i prodotti della ricerca, ma anche riguardo i nuovi prodotti della didattica – come master e corsi di professionalizzazione – sono i decisori economici; infine, ormai completamente concentrati su uno studio che gli consenta di trovare un impiego sono gli studenti, sempre più indifferenti alla prospettiva di un impiego mal pagato e poco soddisfacente come quello del ricercatore.

In questo senso, il ritratto del lavoro del ricercatore che emergere dalle pagine de La scienza governata è un esempio piuttosto lampante di un impiego che non ha, in fondo, alcuno scopo, ma unicamente delle finalità immanenti: la propria sussistenza, perseguita evidentemente in qualsiasi modo e a qualunque costo, anche dei costi che superino i benefici; una produzione conformativa e performativa di contenuti che diviene produzione di performance dai contenuti sostanzialmente indifferenti (nel doppio senso, che cioè non fanno alcuna differenza e non si differenziano tra loro); la riduzione del sapere, che in quanto saper-fare o saper-vivere è intrinseco in ogni lavoro che non sia un semplice impiego, a una serie di mansioni e task tra loro indifferenti. Tutto questo comporta una perdita del senso, uno sfarinamento della motivazione che spinge il ricercatore a fare il suo lavoro. In breve, porta inevitabilmente a un esaurimento della vera ragione per la quale si fa ricerca: dare un senso alle cose, capire il perché delle cose che avvengono. Quello che scompare, nell’incubo burocratico che descrive Malrieu, è la capacità di farsene una ragione – che in fondo è il motivo per cui qualcuno dovrebbe prendersi l’onere di fare scienza.

La scienza finisce così costretta nella spirale irresponsabile di una politica e di un’economia (di un “potere”) del tutto irresponsabili e incapaci di produrre riflessione, ma anche di attendere i tempi e i rischi di una problematizzazione. In questo mondo la scienza non può che vedere progressivamente ridotti i propri spazi, fino a scomparire. Il dubbio di Malrieu è se, con essa, non scompaia anche la capacità di riflettere sui grandi problemi che attanagliano il nostro tempo, su tutti la crisi climatica. A più di dieci anni dalla sua pubblicazione originale, il testo di Malrieu sembra lasciare aperte tutte le domande e tutte le questioni che poneva quando ne è emersa la versione francese: in fondo l’autore non sembra avere delle risposte per i grandi temi che condizionano il nostro tempo – e forse pretendere che da questo testo emergano soluzioni vorrebbe dire andare molto oltre i suoi confini e i suoi obiettivi. Quello di Malrieu, sebbene fecondo, rimane infatti un testo militante e intrigantemente morale: un monito, argomentato e articolato, su quali sono i rischi – e in parte l’attualità – di scelte poco o per nulla ponderate riguardo argomenti estremamente importanti. Il messaggio finale che sembra emergere, insomma, è: lasciateci il tempo e lo spazio per pensare, lasciateci il tempo di studiare, lasciateci il tempo di farci il problema dei problemi del mondo, se volete che riusciamo a farcene una ragione.

Peccato che di tempo ne sia passato troppo e ce ne sia sempre meno, viene da rispondere.


[1] Jean-Paul Malrieu, La scienza governata. Saggio sul triangolo scienze/tecniche/potere, Guida Editori, Napoli 2023

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