Nella Smart City

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di Federico Simonetti.

William Gibson ha scritto che il futuro è già qui, solo che non è equamente distribuito[1]: un’affermazione del genere può certamente essere considerata vera o falsa a seconda del punto di vista con cui si guarda il mondo, ma sembra particolarmente calzante per il fenomeno delle smart city.

Per chi si interessa di innovazione e tecnologia da tempo, è strano notare come alcuni termini entrino nel dibattito pubblico senza che si abbia una chiara definizione di quali sono le implicazioni dirette e indirette del loro utilizzo o del loro sviluppo, specie quando si tratta di politica locale. È un fatto curioso che il termine smart city sia entrato così diffusamente nel dibattito amministrativo italiano, specie in un momento storico nel quale molte grandi città italiane come Roma, Milano e Napoli si apprestano a una tornata elettorale importante. In questi contesti, smart city si trasforma in una buzzword utilizzata a vario titolo, nel dibattito pubblico e giornalistico e nel rincorrersi di dichiarazioni politiche di qualunque appartenenza e colore, quasi fosse di per sé un paradigma di buona amministrazione e buona disposizione verso l’innovazione e, appunto, il futuro.

Nel dibattito su cosa sono le città oggi e quale debba essere il loro futuro, ci sono numerosissime posizioni e tendenze: un posto sempre più importante, in queste elaborazioni, è offerto all’innovazione tecnologica e alla digitalizzazione tanto che, da un certo punto in avanti, l’idea di futuro che viene portata avanti da aziende e dal mondo politico sembra sempre di più essere quella di una città tecnologicamente avanzata che si autogoverna. L’idea di smart city sembra acquisire, col passare del tempo, una egemonia nel dibattito politico, come fosse l’unico modello possibile di una città del futuro.

Viene quindi spontaneo chiedersi in che senso si parla di smart city e di che cosa parliamo quando ne parliamo. Come accade spesso alle buzzword, il termine ha subito varie oscillazioni e sostanzialmente cambia di significato a seconda del contesto in cui viene utilizzato. Tuttavia, come termine tecnico, l’espressione si è attestata nella letteratura specialistica lungo il corso dell’ultimo decennio, soprattutto grazie al lavoro della Fondazione Clinton: fu la fondazione dell’ex presidente degli Stati Uniti a sfidare il produttore di apparati di rete Cisco a utilizzare il proprio know-how tecnico per rendere le città del futuro più sostenibili. Questa sfida ha portato a un crescente interesse da parte di numerosi attori economici, specie nel settore dell’Information & Communication Technology (ICT), a identificare le città contemporanee come uno spazio da aggredire commercialmente, presso il quale proporre soluzioni software sempre più complesse e “innovative”.

Va detto che l’idea di una “città intelligente” non è certo nuova e, pur divenendo estremamente diffusa e discussa solo di recente, il tema è presente almeno dagli anni ’60 del XX secolo: l’idea di fondo è quella di una città, intesa come spazio urbano, che sfrutti un’infrastruttura tecnologica per rispondere alle esigenze dei suoi abitanti in modo da prevederne i comportamenti e agire in maniera proattiva e repentina. Su questa base teorica si sono esercitati nel corso degli anni soggetti tra i più diversi: artisti, architetti, scrittori di fantascienza, ingegneri software e designer, che hanno contribuito a formare quel concettoide via via più complesso che chiamiamo appunto smart city.

Il suo successo recente non è un caso: il modello di una “città intelligente” si trova infatti al crocevia tra numerose tendenze e contraddizioni della contemporaneità e ne rappresenta forse un punto nodale. Le tensioni verso le quali prova a rappresentare una risposta, infatti, vanno di pari passo con quelle che affrontano le metropoli, di cui la smart city è solo uno dei possibili modelli:

  • anzitutto, il rapporto dialettico tra centro e periferia, nella distribuzione della popolazione mondiale, ma anche nella distribuzione delle risorse globali e del peso politico delle città
  • la questione dell’inurbamento e del numero crescente di persone che abitano nelle città, nelle metropoli e nelle megalopoli, del rapporto di queste persone tra loro e dei conflitti sociali, politici ed economici che questo processo implica
  • la questione ambientale, derivante dai primi due processi e per certi versi dipendente da essi e dal consumo di risorse (suolo, acqua, aria, etc.)
  • il problema della rappresentanza politica e dell’efficacia delle decisioni locali sui processi regionali e globali
  • il tema tecnologico e tecnocratico e le contraddizioni legate alla sempre maggiore concentrazione di potere economico, decisionale e politico nelle mani di pochi colossi del digitale.

Questi fenomeni rappresentano i problemi delle città contemporanee, ma allo stesso tempo si tratta di problemi che stiamo affrontando come specie e come civiltà. La smart city si presenta come la soluzione tecnica definitiva a questi problemi, offrendo una risposta tecnologica estremamente attraente a problemi che sono per loro natura complessi e che comporterebbero delle scelte politiche rischiose, sia in termini di consumo di risorse che di perdita di consenso.

Nel corso degli anni dal 2005 in avanti, colossi del mondo informatico come Cisco, IBM, Oracle e Microsoft hanno iniziato a lavorare su un’idea di “città del futuro” molto specifica, caratterizzata da uno spiccato soluzionismo tecnologico[2] un futuro digitalizzato e filtrato dalle lenti a contatto del controllo algoritmico, il cui mantra è l’efficientamento assoluto garantito dal continuo sfruttamento dei dati. In questa visione l’algoritmo è interpretato come un sistema asettico e oggettivo: questo punto di vista sembra dimenticare, più o meno colpevolmente, che gli algoritmi non hanno nulla di oggettivo, ma sono piuttosto “opinions embedded in code” come ha affermato Cathy O’Neil[3].

L’illusione che vendono i maggiori player del mercato ICT è, in sostanza, che con la giusta quantità di dati e di informazioni, è possibile risolvere i problemi di una città in maniera assolutamente oggettiva, lasciando decidere l’algoritmo. Anzi, non solo è possibile risolvere i problemi, ma addirittura prevenire la loro formazione o evitare che si verifichino.

Non si tratta di una responsabilità da addossare interamente alle aziende che operano nell’ICT, ma anche a tutto il complicato sistema di marketing territoriale che carica della responsabilità di vendere il proprio territorio sia i sindaci delle metropoli che i governatori delle macroregioni che le ospitano: nell’ottica di attrarre investimenti di vario genere (anche immobiliari, chiaramente) uno dei modi più appealing è vendere l’innovazione, far apparire high tech la città e il territorio che la circonda. Negli ultimi trent’anni il modo che hanno avuto le città per mostrarsi all’avanguardia è attraverso una corsa alla digitalizzazione – presunta o reale – di cui spesso i cittadini sono insieme vittime, spettatori o artefici inconsapevoli: dalle paline elettroniche dei mezzi pubblici ai totem dei punti informazioni, dai wi-fi pubblici nelle piazze alle app saltafila del Municipio, la corsa alla digitalizzazione si costruisce spesso su una serie di infrastrutture del tutto invisibili e allo stesso tempo del tutto impenetrabili che cercano di utilizzare soluzioni tecniche per risolvere problemi, partendo però più spesso dalla necessità di vendere (anche mediaticamente) soluzioni anziché dalla necessità di risolvere problemi. Tale fenomeno è più evidente nei punti in cui questi processi non funzionano affatto: app con procedure assurde che complicano l’esperienza degli utenti più di una semplice coda a uno sportello, dati che si accumulano senza che vengano effettivamente utilizzati, apparati digitali rapidamente resi obsoleti e abbandonati all’incuria, processi che una volta digitalizzati sono appannaggio delle società che li hanno venduti e non possono più essere né sostituiti né operati dall’attore pubblico, e così via.

Un’idea altamente cibernetica di città, iperefficiente e completamente automatizzata, si scontra in questi casi con uno spazio urbano altamente inefficiente e conflittuale: l’infrastruttura digitale, a quel punto, diviene generalmente un utile strumento di segregazione e separazione, distinguendo una città di serie A, spesso situata nel centro o nei quartieri più frequentati dai flussi turistici, da una città di serie B, residenziale, spostata in periferia e riservata a fasce via via meno “desiderabili” di popolazione. Anche in questi contesti meno evoluti, tuttavia, la smart city trova un suo spazio di mercato: dove non possono vendere servizi avanzati basati sull’innovazione tecnologica, le società come IBM possono lavorare su infrastrutture già esistenti, come gli apparati di videosorveglianza, digitalizzandoli e offrendo servizi on top per la messa in rete di sistemi di sicurezza basati sull’analisi algoritmica delle fonti video. Anche in questo caso, l’obiettivo è quello di aumentare il controllo algoritmico, spesso riducendo la mancanza di politiche sociali inclusive a problematiche di ordine pubblico o derubricando l’incuria e la mancanza di investimenti a una generica “lotta al degrado”.

La cosa più affascinante, da un punto di vista politico, del dibattito sulla smart city è l’assenza quasi completa di una visione propriamente politica della città: lo spazio urbano, che è storicamente interpretabile come la culla della politeia, viene completamente automatizzato e tecnicizzato, eliminando quasi completamente l’idea di una decisione, intesa come scelta e assunzione di responsabilità. L’obiettivo della smart city, insomma, sembra essere quello di una città che “si governa da sola” non diversamente dal modo in cui una smart car si guida da sola.

Il punto di vista di IBM sulla smart city è particolarmente illuminante: lo scopo dei Sistemi Operativi Urbani (UOS) è quello di unificare i domini separati in cui le città sono divise e che impediscono di governarle come un’unica entità. Osservando una città per come la descrive IBM, essa è costituita da sistemi diversi (acqua, energia, trasporti, etc.), correlati ma non connessi che rispondono ad attori differenti con giurisdizioni e interessi spesso in conflitto. Chi gestisce le città da un punto di vista politico e amministrativo, per IBM, non ha un singolo punto nel quale possano confluire tutte le informazioni codificate, omogenee e organizzate in modo da ottenere un rapporto in tempo reale sullo stato della città: in questo modo, secondo IBM, è impossibile prendere delle decisioni pienamente consapevoli e si rischia fare scelte dalle conseguenze imprevedibili. Inoltre, tutti questi sistemi producono una mole di informazioni e dati enorme, proveniente da fonti diverse e difformi, ma la quale le città mancano dell’abilità di estrarre informazioni significative da questo magma indistinto. Ovviamente, IBM ha una soluzione per tutto questo: la sua gamma di prodotti pensati per la smart city.

Gli scopi di tutto questo interesse, commerciale e politico, sulle smart city sono molteplici e non sempre vanno nella medesima direzione.

Al di là di un guadagno immediato nel disegnare e realizzare questi progetti di smartification, le società tecnologiche mirano a sfruttare gli enormi data lake che le città generano, per un loro successivo sfruttamento commerciale: il vero business di colossi come IBM e Cisco è infatti sempre più spostato verso i sistemi predittivi, utilizzati dalle aziende e dalle società di servizi per scoprire nicchie di mercato, lanciare nuovi prodotti e massimizzare gli investimenti.

Un altro scopo è rappresentato, piuttosto banalmente, dall’opportunità e necessità di controllo dei flussi nel costruire le città e i loro centri come delle cittadelle commerciali fortificate. Si tratta di un meccanismo di costruzione di un centro città tecnologico e ricco di servizi digitali, creati per il flusso di turisti, generalmente ricchi, che crea uno spazio urbano senza frizioni nella spesa, nel trasporto, nel consumo di cibo e nell’affitto. Ognuna di queste attività, che per i normali residenti rappresenta virtualmente un problema politico e sociale, viene infatti rimpiazzata da alternative smart (a pagamento, ovviamente) che si appoggiano sull’infrastruttura tecnologica della smart city. Pensiamo a a città come Londra, Milano, Buenos Aires o Santiago del Cile: società come Uber o Airbnb beneficiano di tutti i servizi offerti dalla smart city come la geolocalizzazione e il monitoraggio del traffico, imponendo un modello turistico e commerciale che influenza direttamente l’urbanizzazione. Allo stesso tempo, questo controllo è esercitato anche per escludere componenti sgradite da questo quadro, relegandole alle periferie, aumentandone la marginalizzazione o tenendole letteralmente sotto controllo attraverso i diversi layer dei sistemi di sorveglianza.

In terzo luogo, la possibilità di ottenere sempre più dati provenienti dalle interazioni e comportamenti umani rappresenta la risposta alla necessità di ridurre sempre di più il rischio d’impresa e fornire dati sempre più attendibili per azionisti e investitori. Avere una mole di dati virtualmente esaustiva su cosa accade realmente in una città in termini di flussi, spostamenti, comportamenti e consumi è il sogno di ogni marketer e di ogni stratega aziendale: significa non dover scommettere su cosa funzionerà o meno a livello di investimento, ma di poterlo prevedere con una certa affidabilità.

Ma un ulteriore scopo, connesso ai primi due e non trascurabile, è quello di rendere ciascun momento della vita disponibile al consumo: è ciò di cui parla Bernard Stiegler nell’introduzione a Dans la disruption[4] e il documentario di Christophe Nick Le Temps de cerveau disponible[5] ovvero la capacità di alcuni tipi di tecnologia, in particolare quella audiovisiva, di “catturare” e rendere “disponibile” l’attenzione dei loro utenti, esponendoli a diversi tipi di messaggio.

La tipologia di messaggio veicolato cambia a seconda di chi è l’emittente: messaggi commerciali, certamente, ma anche messaggi che hanno un contenuto maggiormente legato al controllo politico, all’esclusione di specifiche componenti della società, al mantenimento di determinati standard di comportamento. Non è un caso che le grandi megalopoli cinesi come Beijing, Shenzhen o la stessa Wuhan siano il centro di un’incredibile accelerazione verso la smartification – e lo sono ancora di più dopo l’esplosione del COVID-19.

Per tutte queste ragioni, la smart city rappresenta uno dei punti di snodo più interessanti dello sviluppo tecnologico ed economico globale, l’elemento di una battaglia che vede le città come campo di battaglia, letteralmente “fatto a fette” dalle strutture e infrastrutture informatiche, la cui posta in gioco è in ultima istanza il modo di abitare e di vivere di una crescente maggioranza della popolazione mondiale.

Siamo davvero disposti a farci guidare verso questo futuro?


[1]  William Gibson, Neuromante, Milano, Mondadori 2017

[2]  Evgeny Morozov, Internet non salverà il mondo, Milano, Mondadori 2017

[3] Cathy O’Neil, “Data Scientist Cathy O’Neil: ‘Algorithms Are Opinions Embedded in Code’” disponibile al link https://bit.ly/33IfqRs

[4] Bernard Stiegler, Dans la disruption, Paris, Le Liens qui libèrent 2016

[5] Christophe Nick, “Le Temps de cerveau disponible”, disponibile al link https://youtu.be/amzLnvfaeJM

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