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Virus della violenza. Una lettura girardiana del CoViD-19

di Adriano Vinale (Univ. di Salerno)

Ogni epoca è, per definizione, portata a pensare agli avvenimenti che la interessano come unici. Epocali, appunto. Vale per ogni generazione, per quella che usciva dalla guerra di trincea come per quella che veniva fuori dal campo nazista, per quella che veniva immolata a Piazza Fontana e per quella che dall’11 settembre ancora fatica a tirarsi fuori. Sia inteso, ognuno di questi eventi ha la sua effettiva valenza epocale, ma il breve esercizio che qui propongo è di carattere inverso: vorrei provare a pensare la ricorrenza, l’invariante nell’epoca del CoViD-19.

«La città […] è scossa dai marosi e non può risollevare il capo dai gorghi della burrasca di sangue: si spegne nei germi che chiudono i frutti della terra, si spegne nelle mandrie dei buoi e nei parti infecondi delle donne. E la dea della febbre, la peste maligna, è piombata sulla città. Si svuotano le case dei Tebani e il nero Ades si fa ricco di pianti e di singhiozzi». È il coro dell’Edipo re a parlare, e parla per la città devastata dal loimòs. Nel lessico greco classico, loimòs è parola inequivoca. È il morbo inviato dal dio. Loimòs chiama Omero la piaga mandata da Apollo a devastare l’accampamento acheo sulle sponde di Troia. Loimòs chiama Tucidide la peste che si abbatte su Atene negli anni della guerra del Peloponneso. Loimòs è, insomma, l’epidemia indecifrabile e incontenibile.

È del tutto ovvio che né sotto il profilo patologico né sotto quello sanitario si possono rintracciare più che flebili eco del loimòs greco nel SARS-CoV-2. Nulla accomuna l’organizzazione sociale ed economica ellenica al sistema-mondo in cui viviamo e che ha permesso la genesi e la diffusione del nuovo virus. Mi pare invece possibile rinvenire qualche somiglianza con i meccanismi che le comunità umane attivano per reagire alla catastrofe.

Il sito web del Ministero della Salute italiano ha approntato una pagina dedicata al Coronavirus, dove ci si imbatte in un prontuario medico, un vademecum igienico, un bollettino sanitario e una sezione FAQ. Sul sito della OMS si trovano indicazioni analoghe, oltre ad un monitoraggio globale, con tanto di contatore dei contagi accertati e del numero totale di decessi, regolarmente aggiornato. La John Hopkins University ha messo poi a punto una interactive web-based dashboard, una mappa della diffusione planetaria del virus, intuitiva e facilmente navigabile. Macchie rosse su fondo nero (l’eco stendhaliana non potrebbe essere meno rassicurante). Oggi, 6 aprile 2020, i casi mondiali confermati sono 1.275.542, i ricoverati 262.985, i morti 69.498. In Italia, rispettivamente 128.948, 21.815 e 15.887.

Ma le cose si fanno davvero interessanti quando si sfoglia il Decalogo dei comportamenti da seguire, datato 17 febbraio 2020, disponibile sempre sul sito ministeriale e liberamente scaricabile in formato poster o pieghevole. Accanto alle normali prescrizioni igieniche con cui abbiamo familiarizzato in queste settimane – lavarsi le mani, coprire bocca e naso quando si starnutisce o tossisce, disinfettare le superfici, evitare il fai-da-te nell’assunzione di antibiotici o antivirali, non intasare inutilmente il Pronto Soccorso –, al punto 8 si legge, testualmente: «I prodotti Made in China e i pacchi ricevuti dalla Cina non sono pericolosi». Per quanto risibile, questa prescrizione, nella sua elementare auto-evidenza, lascia intravvedere la drammatica fenditura che il Coronavirus ha aperto, o forse più semplicemente reso visibile, nel nostro tessuto etico e sociale. Credo sia facilmente leggibile, dietro il tono tranquillizzante adottato, un non-detto piuttosto inquietante: i Cinesi – tipologia particolare di “prodotti Made in China” – non sono pericolosi. Inquietante anche qui non è l’ovvietà dell’affermazione, ma l’esigenza governativa di esprimerla più o meno chiaramente.

Che la questione razziale non sia solo italiana lo dimostra la diffusione da parte dell’OMS di una guida redatta assieme a IFRC e UNESCO, e diretta a Istituzioni governative, media e organizzazioni locali. Il titolo è eloquente: Social Stigma associated with CoViD-19. A Guide to prevent Social Stigma [1]. In essa, tra l’altro, si legge (qui nella traduzione italiana [2]): «Lo stigma sociale, nel contesto della salute, è l’associazione negativa tra una persona o un gruppo di persone che hanno in comune determinate caratteristiche e una specifica malattia. In un’epidemia, ciò può significare che le persone vengono etichettate, stereotipate, discriminate, allontanate e/o sono soggette a perdita di status a causa di un legame percepito con una malattia. […] L’attuale epidemia di CoViD-19 ha provocato stigma sociale e comportamenti discriminatori nei confronti di persone appartenenti a determinate etnie e di chiunque si ritenga essere stato in contatto con il virus».

L’OMS riconosce il fenomeno e dà delle indicazioni atte ad inibirlo. Imperativi morali – «serve mostrare empatia con le persone colpite» –, prescrizioni linguistiche – non «associare luoghi o etnie alla malattia, questo non è un virus di Wuhan, un virus cinese o un virus asiatico», non parlare «di persone che trasmettono CoViD-19, infettano gli altri o diffondono il virus», non «usare un linguaggio iperbolico creato per generare paura ad esempio utilizzando parole come peste, apocalisse»– e indicazioni mediche – lo stigma rischia di provocare «maggiore – non minore – probabilità di diffusione». Sul versante linguistico si invoca il coinvolgimento di social influencers, la rappresentatività mediatica dei diversi gruppi etnici e l’adozione di una rigorosa etica giornalistica, che eviti di focalizzare l’attenzione sui comportamenti e le responsabilità individuali dei pazienti nella diffusione del virus e non intraprenda un’ossessiva caccia al paziente zero (insomma, l’esatto contrario di quello che in questi giorni accade in Italia e nel mondo). In generale, queste linee guida dell’OMS riconoscono e cercano di anticipare il principale effetto di quello che i sociologi chiamano il labeling: «Lo stigma può minare la coesione sociale».

Come per il loimòs greco, il problema con il CoViD-19 è la sua invisibilità. Sono molteplici i riferimenti cinematografici cui si può attingere – da Outbreak di Petersen (1995) a The Happening di Shyamalan (2008), da Twelve Monkeys di Gilliam (1995) a Interstellar di Nolan (2014) –, ma il mio preferito resta The Thing (1982). In una scena-madre del remake di Carpenter il dottor Blair (Wilford Brimley) – membro della base scientifica statunitense di stanza in Antartide – visualizza al computer una proiezione epidemica dello strisciante e mostruoso virus che li ha aggrediti. Camera sullo schermo: «Probability that one or more team members may be infected by intruder organism: 75%. Projection: if intruder organism reaches civilized areas… entire World population infected 27,000 hours from first contact». Stacco: viso preoccupato del dottor Blair. Stacco: il dottor Blair apre il cassetto e ne estrae una pistola.

Homo homini virus, ha scritto Gramellini sul Corriere della sera l’1 aprile (non so fino a che punto consapevole della portata della propria evocazione). Bisogna trovare l’infetto. Bisogna difendere la società, avrebbe detto qualcuno. Ma visto che in queste settimane l’attrezzatura ermeneutica della biopolitica è stata già diffusamente messa in funzione, preferisco adottare un’altra categoria, sperando possa avere una soddisfacente tenuta euristica: il capro espiatorio.

Nel 1982, René Girard esordisce nel suo Il capro espiatorio con una lunga citazione tratta dal Jugement dou Roy de Navarre di Guillaume de Machaut (poeta di corte e compositore francese del XIV secolo). Il brano riportato dall’antropologo francese consiste di una triviale invettiva contro Giudea la svergognata – «una merda falsa, traditrice e rinnegata» – che individua negli Ebrei gli untori e propagatori della peste nera. Nell’analizzare questo testo di persecuzione, Girard invita a prendere alla lettera le informazioni che esso veicola, trattandolo cioè come attendibile fonte storiografica e non come gotica invenzione letteraria. Anche quando vi si legge: «Tutti gli Ebrei furono distrutti, impiccati gli uni, cotti gli altri, chi affogato, chi decapitato con ascia o con spada». Quello che il testo racconta è per Girard quello che è realmente accaduto nella Francia di metà Trecento: una strage di Ebrei, ritenuti untori e responsabili della diffusione del cocco-bacillo di Yersin.

Prescindendo dalla complessa e articolata proposta teorica di Girard, vale la pena soffermarsi sulla sua concettualizzazione della crisi. Per Girard, l’ordine umano – che è ordine simbolico, culturale, sociale e politico – germina da quello che lui definisce l’omicidio fondatore. Gli esseri umani, in origine, hanno avuto necessità di deviare la violenza che reciprocamente si perpetravano verso una figura liminare, un soggetto interno/esterno alla comunità (lo straniero, il deforme, il diverso). È questa la scintilla fondatrice, l’innesco sociale che ha trasformato le frammentate aggregazione primitive in comunità ordinate. Ogni comunità sarebbe cioè nata dal sacrificio di un innocente, verso cui sarebbe stata canalizzata l’innata violenza umana. L’ordine umano sarebbe di conseguenza un ordine della violenza (il genitivo è qui insieme soggettivo e oggettivo).

In maniera ricorrente, tuttavia, l’ordine culturale della violenza entra in crisi, anche per ragioni molto eterogenee. La catastrofe può avere le sembianze del loimòs tebano o della mors nigra trecentesca, della Great Depression degli anni Trenta del Novecento o della Great Recession a cavallo degli anni Dieci del Duemila. Fino al nostro SARS-CoV-2. È in questi frangenti che la violenza umana si risveglia e riprende a circolare fuori dai percorsi stabiliti. «La violenza (reciproca) – scrive Girard ne La violenza e il sacro (1972) – distrugge tutto quello che la violenza (unanime) aveva edificato. Mentre muoiono le istituzioni e i divieti che poggiavano sull’unanimità fondatrice, la violenza sovrana vaga tra gli uomini». Bisogna allora disinnescare il ritorno di questo rimosso, ridare alla violenza una direzione unanime, ricanalizzarla deviandola verso nuovi capri espiatori.

Come ha insegnato Camus, l’effetto che la peste produce è la tragica sospensione dell’ordine umano. È l’ingresso nello stato di eccezione. È la reinsorgenza della violenza interminabile a fronte dell’erosione dei dispositivi di contenimento messi in piedi dall’ordine sociale. Il simbolico cessa di funzionare, rappresentazioni e i riti perdono cogenza e presa. La narrazione costituente si slabbra e nasce la necessità di una nuova deviazione sacrificale.

E rieccoci al punto: homo homini virus est. Ecco le risse ai supermercati – da Treviglio a Napoli –, la vigilanza di quartiere con tanto di gogna social per gli evasi dalla quarantena – si ricorderà la farmacista salernitana bersagliata da secchiate d’acqua mentre si recava al lavoro –, l’accanimento verso il runner, ecco il lanciafiamme e i meme deluchiani che frivolamente sdoganano la caccia all’untore. Ognuno di noi è il nemico. Bisogna innescare subito la reazione autoimmune (va detto che Roberto Esposito la questione l’aveva codificata tempo fa). Bisogna sottoporre tutti ad analisi – proprio come avviene nel film di Carpenter –, bisogna che ognuno dimostri la propria innocenza/sanità. E nel frattempo i meccanismi espiatori devono riattivarsi.

«Li abbiamo visti tutti [scilicet:i Cinesi] mangiare i topi vivi o altre robe del genere» (Luca Zaia su Antenna Tre il 29 febbraio 2020). «Alla fine di tutto dovremo chiedere conto a chi ha fatto cominciare tutto e ha perso settimane colpevolmente nel denunciare l’epidemia. Se il Governo cinese sapeva, non ha denunciato e non ha protetto, ha commesso un crimine ai danni dell’Umanità e adesso non si può far passare per salvatore colui che ha contagiato il mondo. [Applausi]» (Matteo Salvini al Senato della Repubblica il 26 marzo 2020). Fino al rilancio del servizio del TGR Leonardo sul virus creato in laboratorio a Wuhan nel 2015. Tutte queste esternazioni mediatiche possono suscitare la nostra indignazione per la loro trivialità, ma questo non ci aiuterebbe a dare ragione della loro esistenza. E la ragione è appunto nella impellente necessità di dare una direzione alla violenza. Perché la violenza è un morbo, e come ogni morbo, è contagiosa. Se lasciata libera, si propaga indiscriminatamente in modo incontrollabile. Gli esseri umani hanno sperimentato nei secoli il buon funzionamento della discriminazione come antidoto, la sua grande efficacia nel sedare la violenza reciproca indirizzandola verso una vittima sacrificale, trasformandola così in violenza unanime. Insomma, lavoriamo al meglio, ma prepariamoci al peggio. Il virus della violenza chiede un capro espiatorio.


R. Girard, La Violence et le sacré, 1972, trad. it. La violenza e il sacro, Milano, Adelphi 1980.

R. Girard, Le bouc émissaire, 1982, trad. it. Il capro espiatorio, Milano, Adelphi 1987.